Si chiamava Christian Liberté Boltanski e il suo cuore ha cessato di battere il 14 luglio, nel giorno in cui la Francia festeggia la propria festa nazionale. Pochi artisti hanno saputo cogliere come lui il senso della fotografia nelle società occidentali. Una produzione sobria la sua, che si dipana attorno a pochi temi, alla ricerca di quel punto di equilibrio in cui l'individuo si scorge, al cuore dell'umanità tutta, uguale e diverso, uno e plurimo, discendente ultimo di una progenie che si dà in superficie, che emerge nel ricordo, annullando la profondità del tempo. Siamo troppi e ci perdiamo, ma ci teniamo e ci cerchiamo. Come i nomi negli elenchi degli abbonati del telefono.
"Anime. Di luogo in luogo": la retrospettiva di Christian Boltanski a Bologna
L’utilizzo di fotografie documentarie e oggetti quotidiani, il rapporto tra il documento e il monumento, il passaggio dal soggetto all’oggetto nella dinamica della grande storia, le relazioni tra quest’ultima e la dimensione privata e individuale. L’impiego particolare delle luci per installazioni dal carattere evocativo e funebre, il tema della perdita, capace di attivare lo spazio della memoria, la poetica proustiana. Queste le tematiche di Christian Boltanski più frequentemente messe in risalto nei testi non monografici. La mostra curata da Danilo Eccher al MAMbo di Bologna (26 giugno – 12 novembre 2017), spingeva il visitatore a focalizzare la propria attenzione su altre due importanti implicazioni presenti nell’opera dell’artista francese: le sollecitazioni sensoriali nelle installazioni e il richiamo alla centralità dell’osservatore nella creazione dell’opera, attitudini peraltro diffuse tra gli artisti che iniziarono a lavorare tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso.
Il pensiero dei fotografi di Roberta Valtorta, una antologia pubblicata nel 2008, contiene un testo del 1997 in cui Boltanski esprimeva il proprio consapevole e volontario eclissarsi:
“Una vera opera d’arte non può mai essere letta in modo univoco. Il mio lavoro è pieno di contraddizioni. Un’opera d’arte deve essere aperta: è l’osservatore che con il suo sguardo crea l’opera, con il suo bagaglio culturale. Una lampadina in una mia installazione può far pensare a un interrogatorio poliziesco, ma è anche qualcosa che ha a che fare con la religione, una candela. Allo stesso tempo richiama un dipinto prezioso, illuminato da una singola luce. Ci sono molti modi di leggere un lavoro. Deve essere in un certo senso “fuori fuoco” in modo che ognuno possa riconoscervi qualcosa di se stesso.”
Si tratta di una posizione già espressa in un’intervista pubblicata sul n. 26 di BOMB del 1988 e già tangenzialmente presente nei lavori degli anni ’70. Quando si parla di opera aperta il primo riferimento teorico è Umberto Eco (1962) dal cui richiamo ad una “poetica della suggestione” non è necessario allontanarsi per comprendere le opere di Boltanski e le parole sopra riportate.
I lavori di Christian Boltanski puntano a coinvolgere la nostra sfera emotiva. Il rapporto con la società resta confinato ad una dimensione sacrale e antropologica perché i temi che vi si affrontano sono antichi quanto i concetti di vita e di morte. Nell’allestimento bolognese, alcune presenze troppo prescrittive per poter essere pensate come dispositivi offerti alla “libera reazione del fruitore” inducevano a leggere la mostra stessa come una grande allegoria dell’esistenza. Si pensi alle lampadine che componevano le parole Départ e Arrivée (2015) all’inizio e al termine dello spazio espositivo.
L’esigenza dell’opera aperta era un’esigenza personale per Boltanski, ma era anche il riconoscimento della dimensione dello scambio, implicita all’interno dello spazio dell’arte del suo tempo: lo scambio interpretato come necessario alla vita - psichica, biologica e sociale - e alla trasmissione della memoria. Nel lavoro dell’artista francese la centralità dell’osservatore è inscindibile dal ricorso agli stimoli sensoriali perché sono entrambi elementi strutturali indispensabili al meccanismo identificativo.
Se le ali laterali dello spazio espositivo raccoglievano opere che era possibile interrogare con lo sguardo, la navata centrale costringeva ad una immersione totalmente fisica e sensoriale che culminava in quella specie di pala d’altare multisensoriale che è Animitas (blanc), allestita in un’area di raccoglimento alla quale si giungeva solo dopo aver percorso lo spazio fisicamente delimitato da Départ e Arrivée, dopo aver spostato cortine di sguardi (Entre temps, 2015; Regards, 2011) e aggirato pareti di memorie incenerite (Le grand mur de Suisses morts, 1990). Nel catalogo (Silvana Editore) il saggio che maggiormente riesce a descrivere questo aspetto è quello di Mattia Fumanti:
“In queste esperienze, le memorie sono evocate attraverso la relazione fisica tra installazione artistica, spazio in cui essa è contenuta e pubblico. […] Qui il processo del ricordo assume un carattere marcatamente corporeo e sociale. Eppure non è mai un processo collettivo […]. Si tratta piuttosto di un’azione fondata sull’unicità delle esperienze individuali e dei quotidiani atti del ricordo.”
Come in un gioco degli specchi, il procedere di Christian Boltanski, sin dai primi lavori, sembra specchiarsi rovesciato nella poetica di Georges Perec. Ed è come ritrovarlo, dopo averlo osservato dalla parte di Proust, improvvisamente dalla parte di Perec ad applicare la stessa cura maniacale nella costruzione del passato, già estraneo al proustiano fluire delle sensazioni e dei ricordi. Rovesciato come in uno specchio perché a Boltanski non mancavano i ricordi, a lui mancavano gli oggetti tangibili e sensorialmente percepibili della propria esistenza passata.
Nel 1973 raccolse in un album fotografico una serie di immagini nelle quali si faceva interprete delle proprie esperienze infantili; il testo che le accompagnava provava a restituire un carattere autobiografico alla fredda e recitata ricostruzione del passato. Erano questi i segni materiali che Boltanski cercava nelle vite altrui, e che studiava, come un sociologo o un antropologo, per rilevarne i tratti comuni. Strumento privilegiato della ritualità sociale contemporanea, la fotografia entrava di diritto e precocemente tra i materiali con i quali Christian Boltanski dava vita alle proprie opere.
Questa volontà di ricostruzione del passato traccia il legame tra Boltanski e Perec, ma c’è anche altro, ci sono gli archivi, le liste, i libri degli abbonati del telefono (installazione permanente al Musée d’Art moderne de la Ville de Paris, 2000), ci sono i biglietti da visita raccolti e conservati nella busta di plastica con la pubblicità del paracetamolo dove, par hasard, il jihadista s’incontra con l’arcivescovo e il cacciatore con il militante del Fronte di liberazione animale.
Fotografia chiama archivio
Nello spazio dell’arte dove si esplorano i processi di elaborazione e creazione della conoscenza, la fotografia è quella di Pierre Bordieu, la sua arte media che attraversa pubblico e privato, collettivo e individuale.
Intorno a memoria e storia ruota gran parte della produzione di Daniel Blaufuks: un lavoro proteiforme sia per quanto riguarda i media usati sia per gli esiti estetici e formali. L’analisi del rapporto tra memoria individuale e contesto storico prende forma a partire da una tensione interna all’immagine fotografica, dalla sua capacità di essere opera d’arte e documento, e prosegue nutrendosi di ciò che nel tempo tende ad essere organizzato in rappresentazioni niente affatto naturali: biblioteche, cartoline, lettere, fotografie, fotogrammi cinematografici e fascicoli.
Album Pacifica (1997) di Mohini Chandra è una raccolta, un album, un’esposizione e un libro d’artista in cui l’autrice riunisce simbolicamente la propria famiglia dispersa; di queste fotografie di famiglia, Mohini Chandra offre all’osservatore il retro cartaceo che riporta timbri e annotazioni varie, con un chiaro riferimento al nostro modo di rapportarci al visivo. Le indagini di Perec, svolte a partire dalle scarse tracce fotografiche della propria infanzia, sono un monumento al valore documentario e informativo della fotografia se paragonate all’indifferenza da sempre manifestata nei confronti della fotografia documentaria da parte degli storici di professione.
Fotografia tra memoria e critica istituzionale
Archivio chiama ordine e sistema modulare. Nello spazio dell’arte degli anni ‘60 e ‘70, l’archivio è un sistema che rivela la propria qualità aleatoria, la disponibilità ad acquisire significati diversi e ugualmente validi in potenza. Sono molti gli artisti che all’interno delle proprie differenti poetiche sfruttano questo aspetto dell’immagine fotografica e il sistema modulare archivistico. Tra di essi troviamo Christian Boltanski, ma è possibile ancora fare i nomi di Andy Warhol, Larry Sultan e Sol LeWitt. Qui, la critica istituzionale incontra la Visual Culture e i sistemi teorici che guardano alla fotografia come documento storico e politico: due mondi, due paradigmi che sollecitano la stessa riflessione sui sistemi di costruzione del sapere ufficiale.
Allan Sekula con Meditations on a Triptych, un lavoro del 1973-78, espone trittici formati da fotografie tratte dal proprio album di famiglia. Sul tavolino che l’autore dispone sotto le tre immagini, il visitatore trova un lungo testo con alcune possibili interpretazioni delle immagini esposte. Rispetto alle operazioni di semplice decontestualizzazione, Sekula compie un passo in avanti inducendo l’osservatore a superare lo stadio della contemplazione estetica e dell’associazione mentale, portandolo a soffermarsi sulle relazioni tra le tre immagini, sul loro significato sociale e rituale, sul contesto e sul linguaggio.
Hitler Moves East è un libro del 1977 di David Levinthal e Gary Trudeau che, attraverso materiale documentario e ricostruzioni effettuate fotografando soldatini e altri piccoli oggetti, racconta l’avanzata dell'esercito tedesco sul territorio dell’Unione Sovietica durante la seconda guerra mondiale. Le fotografie, benché esplicitamente false, riproducono i tratti tipici della fotografia di guerra: sfocature, grana, esposizioni sbagliate, alterazioni che sembrano segni di degrado dei materiali. Mimando gli aspetti tipici del libro di storia illustrato, Levinthal suggerisce un approccio critico nei confronti dei sistemi e dei processi di produzione della conoscenza.
Christian Boltanski: L'album de la famille D.
Nell’opera di Christian Boltanski ricorre sia la struttura modulare dell’archivio sia il suo comporsi di materiali fotografici originariamente prodotti in ambiti sociali, istituzionali e documentali. A partire da L’Album de la famille D. (1971), la fotografia diviene uno dei mezzi che Boltanski usa per riprodurre e trasmettere la vita, la propria e allo stesso tempo quella dell’umanità intera. La famiglia D. è una famiglia comune e comuni sono i rituali raccolti nell’album fotografico di Boltanski, dove si ripetono le pose e le inquadrature, dove la dimensione storica e lo scorrere del tempo si perdono in quella antropologica dell’uomo moderno. Nell’album di famiglia di una famiglia comune, tutto torna a presentarsi su uno stesso piano, si annulla la profondità diacronica, esattamente come avviene nei sistemi modulari archivistici.
“Puoi archiviare tutto, puoi contare il numero delle bottiglie, delle persone, ma più archivi, più nascondi”, rispondeva Boltanski a una domanda di Chiara Bertola in una intervista pubblicata su Flash Art (Flash Art Italia n°. 289, Dicembre 2010 – Febbraio 2011). E in un’epoca in cui la produzione di materiale visivo cresce in modo esponenziale su queste poche parole converrebbe riflettere a lungo. Si potrebbe interpretarle come un invito a produrre una quantità inferiore di immagini, a praticare l’arte dello scarto e della selezione con maggiore severità, o ancora, e più probabilmente, a un impiego più estensivo del sacchetto di plastica con la pubblicità del paracetamolo.