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#04. Guido Rossa fotografo: anche in una piccola cosa
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#04. Guido Rossa fotografo: anche in una piccola cosa

La mostra e il catalogo.

Chi si avvicinasse al catalogo della piccola mostra tenutasi al Palazzo Ducale di Genova tra il gennaio e il febbraio del 2022, incuriosito dall'attributo che accompagna, quasi dispettoso, il nome proprio del sindacalista bellunese, con una leggerezza che è come la brezza che spazza le nubi dalla cima di qualche maestosa montagna, si accorgerebbe presto che la sua novità non sta affatto nelle fotografie di Rossa, e più avanti vedremo il perché.

Luzzatto, Sergio e Gabriele D’Autilia (a cura di). Guido Rossa fotografo. Silvana Editoriale, 2022.

La vera novità sta altrove ed è il libro di Sergio Luzzatto, intitolato Giù in mezzo agli uomini. Vita e morte di Guido Rossa. Luzzatto, che è uno storico, ha studiato il materiale e le fonti primarie conservate dalla famiglia Rossa e ha scritto una biografia che, sembra per la prima volta, disegna la figura del sindacalista osservandola da una diversa angolazione, da un punto esterno a quella realtà operaia, sindacale e politica che lo ha condotto alla morte per mano delle Brigate rosse, nel 1979. Non si è trattato, sembra, di un frugare nel privato rendendolo pubblico, ma del tentativo di evitare la sclerotizzazione della storia, di illuminare il passato incrociando fonti di diversa natura, consapevoli della forma chiusa e sterile che assumono gli eventi quando emergono dagli archivi delle istituzioni.

È naturale per la fotografia farsi strumento di approfondimento di fatti che non la riguardano direttamente; per coloro che si occupano di fotografia significa lasciare che quest'ultima, studiata solitamente per se stessa, diventi scorciatoia per la conoscenza di storie che altrimenti non avrebbero avuto modo né tempo di avvicinare. Nel procedere del mio blog e della mia newsletter mi è capitato con Ferdinando Magri e con la realtà portuale genovese tra anni Sessanta e Settanta del secolo scorso; mi è capitato ancora, sempre a proposito del porto di Genova, ma non solo, con il reportage di Mario Dondero dei primi anni 2000. Nel caso di Guido Rossa è diverso perché non si tratta di un reportage cioè di un episodio che ha un inizio e una fine all'interno della più ampia attività di un fotografo, professionista o dilettante che sia, ma dell'intera vita di un uomo. Intera si fa per dire considerando che Rossa è stato assassinato a 44 anni.

È come se Guido Rossa e la sua vita troppo breve diventassero guida (e solo mentre scrivo mi accorgo della possibile sovrapposizione tra il nome proprio e il nome comune) verso la conoscenza di un mondo di cui molti di noi non hanno cognizione alcuna. Per quel poco che so di lui, credo che nessun omaggio postumo gli sarebbe risultato più gradito.

Il mondo verso il quale ci guidano gli anni più intensi della vita di Rossa appartiene a un tempo e a un luogo precisi: dalla nascita dell'Italsider alla morte di Rossa. C'è una domanda che ricorre nei testi introduttivi del catalogo, con una frequenza tale da indurre chi legge a ritenerla centrale, se non dal punto di vista della ricerca storica, certamente da quello dell'indagine esistenziale, sociologica forse: si chiedono, gli autori, quanto le esperienze all'interno e all'esterno dell'Italsider abbiano influito sulla formazione della personalità di Rossa e su quella dei suoi compagni di lotta sindacale.

Malvoluta dalla cittadinanza e snobbata dall'élite operaia storica, l'Italsider di Genova è diventata negli anni la "fucina", è il caso di dirlo, della coscienza di classe e delle rivendicazioni degli operai metalmeccanici, delle vittorie ottenute passo passo, nella concretezza del lavoro, nei consigli di fabbrica che qui sono nati de-burocratizzando l'attivismo sindacale. Guido Rossa, un operaio come altri, ma specializzato, ha vissuto da protagonista una stagione che nell'inevitabile scontro tra dirigenti aziendali e dipendenti ha formato un'intera generazione. Unica a uscire davvero sconfitta, se non altro di fronte al giudizio dei posteri, da quegli anni densi e tumultuosi per la città di Genova, è stata la politica, intesa nella sua concreta realtà dirigenziale, fatta di persone nei luoghi di potere.

I testi del catalogo, dopo quello introduttivo scritto dai due curatori (Sergio Luzzatto e Gabriele d'Autilia), che apre ai successivi spiegando le ragioni della mostra, si susseguono come in un affondo. Nel testo di Enrico Camanni, l'alpinista Guido Rossa si allontana gradualmente dal superomismo dello scalatore solitario per calarsi nel vivo delle tensioni economiche e sociali genovesi. Tensioni che Fabrizio Loreto descrive nel testo successivo insieme al progressivo coinvolgimento di Rossa nell'attivismo sindacale e politico. Il quarto testo, di Salvatore Romeo, è uno zoom sulla realtà interna all'Italsider gestita, dalla sua nascita nel 1961, seguendo un modello di produzione importato dall'America e secondo l'idea già italiana (Olivetti, Pirelli, ecc.) di un'impresa "produttrice di civiltà".

Per qualche ragione chi guardava a questo modello dirigenziale credeva fosse importante superare la scissione tra il lavoro in fabbrica e la vita all'esterno di essa, grazie alle attività culturali del circolo aziendale, all'organizzazione delle colonie per i bambini, alle collane editoriali, ecc. ecc. Un modello che diede vita al Fantozzi di Paolo Villaggio e che a noi, un po' più giovani, fa pensare piuttosto a una specie di Matrix. Al di là della finzione, l'esigenza concreta di modificare i rapporti di produzione e di migliorare le ore di lavoro all'interno della fabbrica portò gli operai dell'Italsider ad una alleanza con i tecnici che, a metà degli anni Settanta, diede vita ad un nuovo convertitore a ossigeno, creato per ribaltare i rapporti uomo-macchina in funzione delle esigenze del primo. Se a tali vette di azione e consapevolezza si giunse anche grazie all'idea dell'impresa "produttrice di civiltà" che guidò la dirigenza dell'Italsider nel corso degli anni Sessanta e Settanta non si può dire, ma è certo che il suo impegno e la sua cultura Guido Rossa dovette condividerli con un discreto numero di compagni.

Il principale organo di diffusione di questo modello dirigenziale fu la rivista aziendale, diretta prima da Arrigo Ortolani e poi da Carlo Fedeli. Eugenio Carmi, già direttore artistico della Cornigliano, passò all'Italsider quando quest'ultima nacque dalla fusione della Cornigliano con l'Ilva.

Una rivista aziendale aperta alla collaborazione con i più importanti scrittori e artisti del tempo, libri fotografici e collane editoriali, mostre e alleanze strategiche con intellettuali e pionieri del calibro di Konrad Wachsmann, l'impegno di Eugenio Carmi nella creazione di un'immagine coordinata per la comunicazione aziendale, il coinvolgimento di Kurt Blum in numerose tra queste iniziative.

La sfida: comunicare all'esterno, ma soprattutto all'interno, agli operai stessi, il lavoro e la sua funzione economica e sociale, l'importanza del lamierino d'acciaio nella vita dell'uomo moderno.

Questo e molto altro ci racconta l'autore (Sandro Moracchioli) del quinto testo in catalogo che indaga la dimensione più propriamente estetica della vita aziendale interna all'Italsider. È una "fusione" - le metafore metallurgiche si sprecano - tra il lavoro creativo di Carmi e la produzione industriale, tra l'arte contemporanea e il lavoro degli operai che si concretizza, nel 1959, in Commessa 60214, opera di Nino Franchina firmata dagli operai dell'Officina Riparazioni della Cornigliano.

La Cornigliano-Italsider, grazie alla presenza di Eugenio Carmi è, in questi anni, il centro della trasposizione estetica della realtà industriale come paesaggio contemporaneo, con una vocazione al mecenatismo che troverà ancora, nel 1962, occasione di esercitarsi, finanziando al Festival dei Due Mondi di Spoleto l'evento intitolato Sculture nella città.

Giunti al termine del quinto saggio, quasi nulla, a parte l'introduzione, si è ancora potuto leggere circa l'attività fotografica di Rossa. Abbiamo appreso di una spedizione himalayana nel 1963 e di alcune proiezioni di diapositive al circolo aziendale e al Cai di Bolzaneto. Abbiamo appreso di veri progetti fotografici tesi a indagare e denunciare la speculazione edilizia e il degrado ambientale che già affliggevano la provincia di Genova negli anni Sessanta. Sono segni di un volerci essere, esperire, testimoniare ai quali la fotografia serve da supporto, indagine e comunicazione. Il sesto testo, scritto da Sergio Luzzatto, fornisce qualche dato tecnico e quantitativo che si unisce ad una disamina di ciò che resta a testimonianza dei diversi interessi culturali di Rossa. Parte di questo materiale ha trovato spazio nella Sala Liguria di Palazzo Ducale dove è stato esposto insieme alle fotografie in un allestimento inaspettatamente articolato e stimolante, considerati i limiti del piccolo spazio a disposizione.

Guido Rossa fotografo si mostra a questo punto come un titolo davvero impertinente, nel significato più antico dell'aggettivo cioè come "non pertinente", ma anche nel senso di insolente, birichino. Perché fotografo, Rossa, non sembra essere stato. Ne otteniamo conferma leggendo l'ultimo dei saggi introduttivi, dove troviamo Roberta Valtorta a ripercorrere alcuni dei momenti più importanti attraversati dalla fotografia amatoriale, nella sua qualità di fenomeno socio-culturale di vasta portata.

In fondo al tunnel non troviamo un Guido Rossa fotografo, come ci saremmo inizialmente aspettati, ma Guido Rossa e basta. Rossa non è interessato alla fotografia in sé, non lo troviamo a sperimentare da dilettante appassionato in camera oscura o fuori. Come scrive Valtorta, la fotografia per Rossa: "non è solo un momento di integrazione sociale, ma è anche parte di un suo personale percorso di autoeducazione alla cultura e alla comprensione della realtà". I soggetti scelti ci insegnano a cosa guardasse Rossa nel suo tempo libero, quale rapporto stabilisse con le persone e con il mondo, cosa ritenesse degno di prelievo. Scorrendo le fotografie riunite in fondo al volume sembra talvolta di poter cogliere tracce di cultura visiva, di immagini già viste, ma su questo piano è sempre bene fare attenzione perché quella cultura in realtà potrebbe essere la nostra. Guido Rossa dedicava il proprio tempo libero a diverse attività culturali. Tra queste, la fotografia aveva assunto un significato particolare perché - riportiamo ancora le parole di Roberta Valtorta - "in un mondo strutturato e dominato dal capitalismo maturo [...] fare fotografie appare un modo per mostrare che la propria creatività esiste e deve venire allo scoperto". In questo modo, il sindacalista e il fotografo amatoriale si sovrappongono.

Le fotografie di Rossa testimoniano di un animo sensibile e "prensile" come lo definiscono i curatori; non sono una finestra sul mondo, ma uno specchio, e non a caso Roberta Valtorta all'inizio del suo testo introduttivo inserisce un autoritratto di Rossa allo specchio, testo iconografico auto-esplicativo quanto altri mai. Se dunque è chiaro quale spazio abbia occupato la fotografia nella vita di Guido Rossa, non meno evidente risulta lo spirito con il quale siamo chiamati noi ad accogliere le sue immagini: documenti tra gli altri, certo, ma di natura speciale.

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