#01. Pier Paolo Pasolini. "Non mi lascio commuovere dalle fotografie"
A Palazzo Ducale di Genova dal 30/11/2021 al 27/03/2022.
Che dolore Rossana, le tue parole, e quanta seria consapevolezza vi è in esse. Solo una donna avrebbe potuto scriverle. Mi chiedo quanti, tra i visitatori della mostra, le abbiano lette, in questi giorni1.
Succede così con la vetrinizzazione delle fotografie e dei documenti. Si pensa: che belle quelle pagine di giornale, sono quasi decorative appese su due file alla parete! Sembra di tornare indietro nel tempo, ci si fa cogliere dal gusto per il vintage. Io considero lo stato di conservazione della carta e penso che avevo quattro anni quando ancora quelle pagine odoravano di piombo.
Sono all’ingresso della Loggia degli Abati, al Palazzo Ducale di Genova. La voce dei curatori (Marco Minuz e Roberto Carnero) che presentano il loro lavoro mi assale e subito si annulla nel tono perentorio, forte, duro di Moravia che al funerale tenutosi a Roma il 5 novembre del 1975 ricorda agli italiani ciò che hanno perduto. È un elenco che va dal personale (un uomo buono) al pubblico (un poeta). Hai ragione Rossana, nessuno amava Pasolini, a parte Moravia, forse. Due sonori si incrociano, escono dagli schermi posti all’ingresso dove alle prime pagine dei maggiori quotidiani d’Italia, di destra e di sinistra, si affiancano le fotografie dei due funerali di Pier Paolo, quello romano e quello di Casarsa. Qui, due donne in una ripresa verticale sembrano reggere, ancorate al bordo inferiore della fotografia, il peso del mondo sulle spalle. Sono Laura Betti e la madre del poeta. Le guardo un istante quelle fotografie, il tempo sufficiente a lasciare che si imprimano nella memoria, ma non mi lascio commuovere2. Sono documenti e le pagine di giornale sono lì a ricordarlo. La voce di uno dei due curatori, dallo schermo, mi ricorda invece che le circostanze legate alla morte di Pasolini non sono mai state chiarite; la paratassi assertiva e stringata di Furio Colombo, che ha intervistato lo scrittore per Tuttolibri 6 ore prima dell’omicidio, da una delle prime pagine vetrinizzate mi dice che Pasolini ha cercato la morte. Passo oltre, questa è la fine, quella che non avrei voluto vedere.
La mostra, promossa e organizzata da Suazes, in collaborazione con Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura e con il Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa della Delizia, è strutturata per parole chiave; ogni sala ospita uno o più temi che servono a calare il visitatore e la visitatrice nella vita e nell’opera di Pasolini: le amicizie, le case, la madre... Un ritratto composto con 260 fotografie e documenti d’epoca, riuniti selezionando i materiali del Centro studi di Casarsa - a coprire soprattutto gli anni friulani di Pasolini - e quelli appartenenti a una cinquantina di altri archivi, fotografi e istituzioni3.
Come sostengono i curatori e come fai notare anche tu Rossana nel tuo corsivo in prima pagina, nel caso di Pasolini vita e opera coincidono. La mostra fotografica oltrepassa la sfera della narrazione biografica; il ritratto d’artista, inteso come raccolta collettanea di fotografie o come lavoro di un singolo autore o di una singola autrice che indaga sulla quotidianità insinuandosi negli spazi lavorativi e privati di un personaggio pubblico culturalmente rilevante, non resta sospeso tra l’intrattenimento di massa adatto a soddisfare le curiosità dell’amante dei rotocalchi e l’interpretazione critica. La figura di Pasolini con la sua innocenza (che è assenza di calcolo, di compromesso, come dice Moravia nella sua orazione funebre) sovrasta lo spazio fisico e relazionale che collega fotografato e fotografante, non annulla l’occhio che indaga ma si dà com’è, permettendo all’immagine di cogliere la realtà.
Ho appena scritto qualcosa di ingenuo?
Organizzata in sezioni tematiche, la mostra permette a ciascuno di creare il proprio percorso, sostengono i curatori. Vero, ma la mobilità dell’organizzazione tematica, che non blocca la lettura in senso cronologico, non è la sola libertà che ci si offre. Sulle pareti della Loggia degli Abati, le fotografie si alternano agli scritti di Pasolini e ai pannelli esplicativi. È una triplice testimonianza; possiamo scegliere la nostra guida.
Oltrepassato l’ingresso, ho scelto di iniziare la mia visita dall’ultima stanza attraversando velocemente tutte le altre. Tornando indietro, a metà del mio percorso, ho incontrato la mia guida: la breve intervista di Italo Zannier, pubblicata su Fotografia nel 1959. Le risposte di Pasolini sono profondamente critiche nei confronti della fotografia che considera alla stregua di un mezzo di comunicazione di massa e alla quale assegna funzioni di immediata divulgazione. Ma Pasolini non era autore che snobbasse tali mezzi, li faceva propri, anche come soggetto. La fotografia per Pasolini rappresenta uno spazio linguistico ulteriore dove continuare a praticare l’impegno costante, quello che reca con sé il rischio della contraddizione: quel suo modo di stare al mondo, tratto distintivo che fece di Pasolini uno degli autori più importanti della seconda metà del Novecento o forse, e per queste ragioni, il più importante come sostengono i curatori.
A Zannier che gli chiedeva chi fosse il suo fotografo preferito Pasolini rispondeva Bavagnoli. Carlo Bavagnoli è presente in mostra con alcune immagini che appartengono agli stessi anni dell’intervista di Zannier: precedono l’uscita di Gente di Trastevere e accompagnano la lavorazione di Accattone. Si potrebbe pensare che Pasolini abbia pronunciato il primo nome affacciatosi alla sua mente, in modo distratto, come distratte e noncuranti appaiono le altre risposte alle domande di Zannier. Più probabilmente, Pasolini guardava con sospetto le fotografie diffuse attraverso i mezzi di informazione di massa, mentre intravedeva, seppure in modo ancora confuso in questi anni cruciali per il suo avvicinamento alle immagini tecniche quali forme di espressione poetica, la possibilità di integrare la fotografia nei propri processi di sperimentazione linguistica, secondo un’idea di fotografia di cui il film La rabbia del 1963 sembra dare testimonianza4.
Zannier: Dovendo collaborare alla composizione di un fotolibro, in che misura e in che maniera riterrebbe utile la sua partecipazione in qualità di scrittore?
Pasolini: Con delle didascalie in versi.
Per tornare a Bavagnoli, è difficile immaginarlo come un nome tra gli altri o come un incontro fortuito; la sua attrazione per la vitalità degli abitanti di Trastevere corrispondeva bene a quella di Pasolini per la gente di borgata. Le fotografie di Bavagnoli, scattate sul set del primo film di Pasolini, segnano il passaggio dello scrittore al racconto per immagini. Sono fotografie nelle quali dominano i palazzi di recente costruzione, le vecchie abitazioni in legno e lamiera, i segni dell’edilizia al lavoro su terreni polverosi e non ancora lastricati. La figura di Pasolini sembra inserirsi all’interno di questo paesaggio come elemento nuovo ed estraneo con il suo bel vestito chiaro e la sua cravatta a righe. Eppure, a contatto con queste realtà Pasolini viveva da tempo. Aveva già pubblicato i due romanzi romani che, come le fotografie di Bavagnoli, risentono del clima neorealista pur superandone i modelli consacrati. Collaborando con Bavagnoli, Pasolini ci pesenta la nuova fase del proprio percorso creativo, l’apertura a un nuovo linguaggio con il quale sperimentare e comunicare. Al suo fianco, i bambini di borgata, i libri nella casa di Via Carini, sua madre.
In un numero precedente della newsletter ho scritto che talvolta le fotografie sono esattamente ciò che sembrano. Pasolini e Maria Callas sembrano una coppia perfetta, l’intesa che si percepisce attraverso le fotografie in mostra è dirompente. Mentre notavo la particolarità di questo rapporto, sul set cinematografico e fuori, ancora non sapevo della profonda amicizia che li legava, ancora non mi ero soffermata sulla sezione intitolata Le donne e sul pannello esplicativo che avrebbe confermato la mia prima impressione. Una simile alchimia si verifica quando accanto a Pasolini c’è Moravia.
Nella sezione intitolata Le amicizie il rapporto imperfetto con Italo Calvino è documentato in mostra attraverso una doppia testimonianza: le prime righe della risposta di Pasolini5 a Calvino, che sul Messaggero del 18 giugno 1974 lo aveva accusato di rimpiangere “l’Italietta”, e la fotografia di Federico Garolla che seppe cogliere in Pasolini quello sguardo assente, lontano dal convito ridanciano di Calvino con un terzo commensale nella nota serie del Caffè Rosati, in Piazza del Popolo.
Mi attardavo a considerare l'opportunità di una simile operazione da parte dei curatori, che certo non possiamo immaginare candida e innocente, mi riferisco alla scelta di esporre quel preciso fotogramma tra gli altri che formano il servizio fotografico, quando il suono di un’altra risata reclamò la mia attenzione. Alle mie spalle c’era una coppia, un uomo e una donna, lui diceva: "Che pagliaccio!" Non amando siffatte esternazioni mi sono allontanata; quando sono tornata per terminare la mia visita ho capito: stavano leggendo alcune righe scritte da Oriana Fallaci, una delle amiche di Pasolini, che si scagliava contro la sua indifferenza nei confronti del sesso femminile: "Odiavi troppo il peccato, il sesso che per te era peccato. Amavi troppo la purezza, la castità che per te era salvezza." La mia visita avrebbe potuto concludersi così, Rossana, come è iniziata cioè con le parole di una donna, questa volta talmente lontana dalla complessa realtà delle cose da indurre taluni a mutare il dolore iniziale in risata.
Mentre mi avviavo all’uscita, un moto di ribellione del pensiero mi ha riportata a Pasolini, alle fotografie dell’ultima sala, dove la mia visita è iniziata e dove un’intera parete è ricoperta con le immagini del suo volto magro e ossuto. Non aggiungo aggettivi, non tento l’ecfrasi. Noto soltanto che c’era un bambino paffuto e spaurito a Casarsa, le cui fotografie ricoprono una parete della stanza adiacente, quella dedicata agli anni giovanili, e che adesso in questo corpo adulto sembra definitivamente scomparso. Persino il corpo e la fisionomia in Pasolini si danno come sono, senza calcoli e compromessi.
Ci sono certi pazzi che guardano le facce della gente e il suo comportamento. Ma non perché epigoni del positivismo lombrosiano (come rozzamente insinua Ferrara), ma perché conoscono la semiologia. Sanno che la cultura produce dei codici; che i codici producono il comportamento; che il comportamento è un linguaggio; e che in un momento storico in cui il linguaggio verbale è tutto convenzionale e sterilizzato (tecnicizzato) il linguaggio del comportamento (fisico e mimico) assume una decisiva importanza.6
Rossanda, Rossana. «In morte di Pasolini», in “il manifesto”, 4 novembre 1975.
Il sottotitolo della mostra, Non mi lascio commuovere dalle fotografie, conviene ricordarlo per non perpetuare lo stereotipo di un Pasolini pregiudizialmente avverso alle immagini fotografiche, è stato stralciato da uno degli articoli che Pasolini scrisse per la rubrica «Il caos» che apparve sul settimanale Tempo tra il 1968 e il 1970: «Sfoglio l’Unità: non mi lascio commuovere dalle grandi fotografie sulla manifestazione operaia di Roma, queste son cose che commuovono solo nella realtà, e su cui o si riescono a scrivere delle cose veramente alte oppure si sta zitti.» (Tempo, n. 51 del 20 dicembre 1969, ora in Pier Paolo Pasolini, Il caos, Garzanti, 2015, p. 291.) Un’altra frase citata frequentemente da chi non ha mai letto gli articoli di Pasolini e che rinforza il medesimo stereotipo è non le osservo mai più di un istante, con la quale Pasolini si riferiva alle fotografie dello sbarco sulla Luna, anch’essa stralciata da un articolo della stessa rubrica: « È una notizia e basta. Anche alle fotografie è sufficiente un’occhiata. Non le osservo mai più di un istante. In un istante vedo tutto. Mentre ci sono certe fotografie, le più usuali, che posso osservare anche per qualche minuto (l’espressione strana di un volto, un particolare, una posizione… un personaggio in secondo piano che si intravede appena, ecc.).» («La Luna consumata», ora in Pier Paolo Pasolini, Il caos, Garzanti, 2015, p. 114.)
Mentre scrivo, a metà dicembre, il catalogo non risulta disponibile; non mi è consentita pertanto maggiore precisione, riporto solo i nomi di alcuni dei fotografi e delle fotografe presenti in mostra: Letizia Battaglia, Carlo Bavagnoli, Sandro Becchetti, Dario Bellini, Piergiorgio Branzi, Elisabetta Catalano, Mimmo Cattarinich, Elio Ciol, Mario Dondero, Gabriella Drudi Scialoja, Aldo Durazzi, Claudio Ernè, Archivi Farabola, Federico Garolla, Giovanni Giovannetti, Vittorio La Verde, Cecilia Mangini, Nino Migliori, Domenico Notarangelo, Angelo Novi, Toti Scialoja, Salvatore Tomarchio, Italo Zannier.
Pontillo, Corinne. «“Le colpe di Stalin sono le nostre colpe”. La morte degli umili tra le fotografie della Rabbia di Pasolini». Arabeschi, n. 5, 2015.
«Pasolini: quello che rimpiango», in “Paese sera”, 8 luglio 1974, ora in Pasolini, Pier Paolo. Il fascismo degli antifascisti, Garzanti, 2018.
Ivi, «Il Potere senza volto», in “Corriere della Sera”, 24 giugno 1974.