A inizio anno aprii la nuova serie della mia newsletter su Substack con la mostra che si teneva in quei giorni a Palazzo Ducale di Genova.
Decisi allora che sarei tornata sull’argomento e che lo avrei fatto a novembre quando, ai festeggiamenti per i 100 anni dalla nascita di Pasolini, si sarebbe unito il ricordo della sua tragica morte e della morte del fotografo che più di altri ne rese immortale la figura. La mostra di Marco Minuz e Roberto Carnero apriva al visitatore l’intelligenza del rapporto che Pasolini era capace di stringere, trovandosi di fronte a un obiettivo, tra sé e il mezzo fotografico. Riprendo qui la citazione da un articolo scritto da Pasolini per il Corriere della Sera, già riportata nella newsletter di gennaio:
In un momento storico in cui il linguaggio verbale è tutto convenzionale e sterilizzato (tecnicizzato) il linguaggio del comportamento (fisico e mimico) assume una decisiva importanza1.
Visitando la mostra di Palazzo Ducale si poteva scorgere e assegnare un momento preciso al sorgere di questo discorso che il corpo di Pasolini aveva intrapreso con gli strumenti di ripresa fotografica: gli anni della lavorazione di Accattone (1961), ben rappresentati in mostra attraverso le fotografie che Carlo Bavagnoli fece a Pasolini sul set del film. Gli studiosi di Pasolini confermano che l'apertura alla contaminazione linguistica non nacque nel poeta bolognese da una semplice e curiosa ricerca di linguaggi altri, ma da una vera e propria crisi che, iniziata con Poesia in forma di rosa (1963), si consumò nell’opera di Pasolini tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta.
Gli anni Cinquanta furono anni di lavoro intenso per il nostro poeta. All’attività letteraria Pasolini affiancò l’impegno critico, esercitato soprattutto per la rivista Officina; si avvicinò inoltre al cinema come sceneggiatore, collaborando con Fellini e Bolognini. Da questa poliedrica presenza culturale scaturì un primo rapporto con l’oggetto fotolibro che si concretizzò nelle collaborazioni per Roma (1959) di William Klein e per Donne di Roma (1960) di Sam Waagenaar. Per il fotolibro di Klein, Pasolini scrisse cinque brevi testi che introducono ciascuno una delle sezioni di cui si compone il volume descrivendone il tema secondo una visione personale e disincantata. Per Donne di Roma il contributo di Pasolini si fece più corposo. Scrisse sette testi che introducono sette sequenze fotografiche descrivendole e connotandole, talvolta in modo personale e autobiografico, altre volte costruendovi attorno una finzione narrativa che scava, mettendole a fuoco, nelle realtà sociali documentate fotograficamente. Da parte di Pasolini, in questo momento, ancora nessuno sconfinamento linguistico. I linguaggi si mantengono autonomi e i testi che accompagnano le fotografie di Klein e di Waagenaar si confrontano con le immagini in esercizi di reinvenzione e condivisione tematica e narrativa.
Negli anni Sessanta, la frammentarietà dell’opera, una volta annunciata la propria impellente insorgenza in Poesia in forma di rosa, si tradusse in una nuova esigenza di esplorazione del linguaggio visivo.
Con Poesia in forma di rosa si abbandona lo sguardo contemplativo e onirico della raccolta del 1957 [Le ceneri di Gramsci] e ci si avvicina a quella progettata frammentarietà che è stata la reazione di Pasolini al caotico, alienante magma degli anni cui vive e opera. […] Poesia in forma di rosa rappresenta pure l’uscita dal mondo della poesia e l’apertura, ufficializzata anche in versi, a una nuova attività capace di rispondere all’esigenza di registrazione immediata della realtà.2
L’attività in questione è il cinema, che Pasolini definì “lingua scritta della realtà” in un saggio del 1971 intitolato Tabella. L’insofferenza per il linguaggio comune, scritto e parlato negli anni della sua maturità, spinse Pasolini all’esplorazione dei linguaggi visivi e alla sperimentazione verbo-visiva e acustica degli anni Sessanta, esemplificata dal film La rabbia (1963) e dal cortometraggio La sequenza del fiore di carta (1969). Tra le fotografie dell‘Iconografia ingiallita, l’album autobiografico che conclude La Divina Mimesis, la presenza del frontespizio dell’edizione Garzanti di Poesia in forma di rosa serve a rammentare al lettore di questa “assai leggibile poesia visiva”, l’importanza di questa crisi.
Non è quindi strano che l’introduzione alla prima edizione delle fotografie di Dino Pedriali3 verta esclusivamente su questioni linguistiche, in particolare sugli studi che Pasolini aveva dedicato ai rapporti tra italiano e dialetti, al livellamento introdotto dalla lingua della borghesia che esponeva, a suo avviso, la letteratura alla fruizione consumistica e che rendeva l’uomo schiavo di una nuova autorità. Le due rappresentazioni di Pasolini, quella critico-letteraria di Janus, che rifugge da ogni tentativo di contestualizzazione del corposo lavoro di rappresentazione fotografica che segue, e quella fotografica di Pedriali nascono da uno stesso nucleo creativo, chiaramente individuabile nel lavoro come nella vita del poeta. Ho potuto sfogliare questa edizione del 1975 nell’esemplare posseduto da Edoardo Sanguineti, oggi conservato, insieme al resto del materiale bibliografico che gli appartenne, presso la Biblioteca Universitaria di Genova. Com'è noto, essa occulta una parte importante del servizio fotografico voluto da Pasolini ma, nell’insieme, ha qualità che la nuova edizione del 20114 non possiede. Ho trovato in questa nuova edizione una minore attenzione ai rapporti tra le singole immagini della sequenza, una maggiore confusione nell’organizzazione dell’impaginato, nelle pause e nelle cesure tra le parti del “discorso”. Sembra essersi persa con il tempo quella capacità, che certo Pasolini avrebbe apprezzato, di riconoscere e quindi riproporre la leggibilità di una sequenza fotografica.
Nell’edizione del 1975, la sequenza fotografica è suddivisa chiaramente in sezioni segnate da una cesura formata da una singola o doppia pagina nera. La prima sezione si apre con Pasolini al lavoro, tra macchina da scrivere, fogli dattiloscritti e libri, nella casa di Sabaudia. Il volto e le mani del poeta sono al centro della sequenza; Pedriali gira intorno al soggetto, avvicinandosi e allontanandosi. Nella seconda sezione il poeta è a cena con amici, compagni di squadra appena usciti dagli spogliatoi, che immaginiamo raggiunti al ristorante dalle rispettive famiglie; ce lo dicono le statuette, forse i premi per il torneo concluso, che vediamo tra le mani di quel gruppo male assortito che circonda Pasolini nella rituale fotografia ricordo. Ce lo dice la sequenza precedente che si era chiusa con i provini a contatto di un rullino esposto durante una partita di calcio tra dilettanti. È un insieme di scatti che sembrano simulare l’istantanea amatoriale, che non si cura dell’inquadratura perché sa che il suo valore risiede altrove. Nella sequenza su Pasolini che attraversa le strade di Sabaudia, a piedi o al volante della sua auto, la fotografia torna a farsi accurata, le linee e i piani dell’architettura fascista assecondano il disporsi ordinato dello spazio; entro queste linee e questi piani, il poeta si muove solo, elemento estraneo, con la sua automobile, simbolo di anni caotici, privi di forma, resi frammentari dal neocapitalismo e dal consumismo imperanti. Segue la sezione con gli interni della casa costruita da Pasolini nei pressi della Torre di Chia. Qui il poeta disegna il profilo di Longhi. La sequenza è simile a quella di apertura, il linguaggio di Pedriali non muta come non muta l’impegno di Pasolini in azione nel passaggio da una forma espressiva a un’altra. In esterno, al crepuscolo, Pedriali fotografa il viale con l’automobile, il cancello, il bosco, il ponte sul fossato, le mura della Torre, l’ingresso che è come una feritoia all’interno della quale la figura di Pasolini si inserisce come a far parte delle mura stesse, le stanze illuminate nel buio della sera riprese dall’esterno attraverso le vetrate. È l’ultima sequenza, la più lunga, formata da una cinquantina di scatti. Ci sono i dettagli dell’abitazione, c’è Pasolini ancora al lavoro, ma ci sono anche particolari più intimi, le zone di riposo, le camere da letto. Si giunge a queste stanze attraverso l’immagine di una parete con una porta chiusa, stretta tra le due ali di una libreria; all’improvviso, in questa sequenza di interni, uno scatto riprende il cancello esterno chiuso sul viale; voltando pagina, dopo la pagina bianca di sinistra si incontra su quella di destra un primo piano molto espressivo del poeta. È uno stacco forte che sembra segnare il passaggio tra due dimensioni, quella pubblica rappresentata dai libri e quella privata, oltre il cancello. L’espressività del volto di Pasolini dà l’avvio a quel dialogo corporeo che sarebbe dovuto seguire nella sequenza; qui, il suo sguardo sfidante, quasi aggressivo, indica la via verso la nuova dimensione. Luci all’interno accese, Pasolini continua a lavorare, a pensare, è solo ma instaura un dialogo con il fotografo guardando in macchina. La sequenza fotografica e il libro si chiudono con una serie che è speculare a quella di inizio, ma le immagini del poeta al lavoro sono questa volta alternate alle fotografie dell’esterno a segnare il distacco del poeta dalla società civile. Una società che in questa edizione del 1975 non viene espunta: troviamo ancora il poeta che trascorre il proprio tempo con gli amici a cena, che gioca a calcio, che condivide la propria quotidianità con l’uomo che porta la legna da ardere nel camino.
Nell’edizione di Johan & Levi, il rapporto tra Pasolini e la società non c’è più, il distacco è totale. L’edizione del 2011, inoltre, integra la sequenza dell’edizione precedente con le fotografie del corpo nudo di Pasolini, ripreso attraverso le vetrate. Non è un’integrazione da poco, e non solo per la vis polemica e la sfrontatezza dell’operazione, con tutti i significati che si porta dietro. Gli scatti con il corpo nudo di Pasolini attivano una serie di legami con il saggio inedito su Caravaggio (e quindi a ritroso con il profilo di Longhi5), con la fotografia di un giovane Pasolini che si trova sulla copertina de La nuova gioventù (Einaudi, 1975) e con la poesia, inizialmente esclusa dalla prima edizione della raccolta, che ne illumina il senso:
"Mi metto in posa. Un, due, tre, via! Un poeta guarda giovane il mondo dal fondo di una fotografia. E da laggiù parla chiaro e tondo."
A nessuno immagino sarà venuto in mente di chiedersi perché Pasolini abbia scelto un fotografo giovane per svolgere il lavoro che aveva in mente. A tutti saranno risultate lampanti le ragioni che hanno indotto Pasolini a cercare una mente giovane, ancora aperta e disponibile non tanto a lasciarsi guidare, ma a lasciarsi coinvolgere nel gioco della rappresentazione e del rispecchiamento, qualcuno in cui fosse ancora vivo l’istinto. E l’istinto in Pedriali era vivissimo. Con la mano sulla fronte a schermare la luce interna che rende il vetro uno specchio riflettente, Pasolini dal fondo di una fotografia, come trovandosi al fondo di uno specchio d’acqua, già al di là dello specchio come Narciso, già oltre la vita come nella finzione metatestuale della Divina Mimesis, osserva, osservato, “giovane il mondo”.
Pasolini, Pier Paolo. «Il Potere senza volto», in “Corriere della Sera”, 24 giugno 1974.
Pontillo Corinne. Di luce e morte. Pasolini e la fotografia. Duetredue edizioni, 2015.
Pier Paolo Pasolini. Fotografie di Dino Pedriali. Editrice Magma, 1975.
Pier Paolo Pasolini. Fotografie di Dino Pedriali. Johan & Levi, 2011.
Corinne Pontillo fa notare che il profilo di Longhi disegnato da Pasolini è ripreso, ma speculare rispetto ad essa, dalla fotografia dello storico dell’arte riprodotta sulla copertina di un’antologia di suoi saggi, curata da Gianfranco Contini e pubblicata da Mondadori nel 1973.