#12. Sabine Weiss. La poesia dell'istante
La mostra, al Palazzo Ducale di Genova, e il catalogo, a cura di Virginie Chardin.
Se non avete visto ai Tre Oci la più grande retrospettiva su Sabine Weiss mai realizzata sino a oggi e la prima in Italia sulla fotografa umanista, come si legge nel lungo testo di presentazione sul sito dello spazio espositivo veneziano, Genova offre la possibilità di rimediare.
In biglietteria dicono Zabine, io lo pronuncio “alla francese” e rimugino tra me e me che Sabine Weiss è una fotografa svizzero-francese, così recitano le biografie, e che la mia pronuncia non può essere del tutto errata. In mostra c’è il solito video, un montaggio di interviste a Weiss, tratte da documentari a lei dedicati, che coprono l’intero arco della sua lunga e meritata carriera. Mi precipito ad ascoltarla: parla francese e in francese pronuncia il proprio nome.
Le stanze sono discretamente rumorose e affollate. È lunedì pomeriggio, ma questa mostra è un blockbuster come la maggior parte delle mostre che si tengono qui, alla Loggia degli Abati del Palazzo Ducale di Genova. La buona notizia è che queste mostre assomigliano sempre più ai blockbuster che piacciono a me: mostre piene di documenti, con gli impaginati delle riviste e le testimonianze ingiallite estratte dal fondo del primo faldone d'archivio.
Due momenti nella vita di Sabine Weiss, sulla quale potete informarvi cercando in Internet o acquistando il catalogo, mi sembrano esemplificarne la cifra stilistica. Il primo lo troviamo all’inizio, della mostra e della carriera di Weiss: è il reportage da quella città dei matti che era ancora Dun-Sur-Auron nei primi anni Cinquanta. Un bel colpo per la giovane fotografa. Dopo qualche anno di lavoro come freelancer decide di entrare in agenzia affidandosi in un primo momento alla Magnum che le passa il suggerimento per il reportage di candidatura. Nasce un lavoro condotto con grande attenzione, come si evince dalle poche stampe esposte e pubblicate in catalogo. Un lavoro che vede la luce solo oggi a causa del mancato permesso, da parte dei medici responsabili, di rendere pubbliche le immagini delle ospiti del villaggio. Weiss si avvicina a queste donne come si avvicina ai bambini di Porte de Saint-Cloud; per usare le sue stesse parole, riportate in catalogo da Denis Curti e tratte da Intimes Convictions1: usa la macchina fotografica per raccontare “una particolarità della condizione umana”. Può spingersi un po’ oltre con quei bambini che sembrano forti come giovani cavalli, ma non gioca con le vite fragili delle ospiti di Dun-Sur-Auron, si tiene a rispettosa distanza se non sono le ospiti stesse ad offrire il proprio volto e il proprio sguardo. Si dice empatia quando c’è scambio e accettazione reciproca, rispetto dei limiti imposti dalle persone che abbiamo di fronte. Weiss fotografa le ospiti di Dun-Sur-Auron mentre svolgono attività quotidiane e del tutto simili alle nostre occupazioni giornaliere, fotografa con l’evidente intento di accompagnare queste vite fuori dalla accogliente ma ristretta cerchia del villaggio. Un bel colpo per la giovane fotografa, e un’occasione mancata per la società civile che per molto tempo non ha potuto vedere le sue immagini.
Il secondo momento si trova alla fine, nell’ultima stanza. Le fotografie esposte sono stralci dai viaggi di una fotografa avanti negli anni, capace ormai di sintetizzare, in una figura o in un volto, l’anima di un paese, di un popolo o di una parte di esso. La Sabine Weiss degli anni ‘80 e ‘90 mi fa pensare ad August Sander, e al Barthes della Camera chiara, naturalmente2. L’assimilazione della fotografia di Weiss con l’idea - il concept - che dovrebbe reggere l’organizzazione della grande mostra di Edward Steichen del 1955, la sua “The Family of Man”, secondo quanto scrive Virginie Chardin nell’introduzione al catalogo3, mi appare nella sua problematicità. Non importa quanta fiducia vi fosse nella Francia del secondo dopoguerra nell’idea della ricostruzione, nella possibilità di voltare le spalle al disastro per guardare gioiosamente al futuro e all’edificazione di un mondo in pace: la fotografia, quella di chi ha provato davvero a indagare la condizione umana, ci porterà sempre molto lontani dall’idea, molto lontani dall’universalità, molto vicini alla particolare contingenza dell’istante a partire dal quale, volendo, potremo lavorare di concetto.
Luce, gesto, sguardo, movimento, silenzio, tensione, riposo, rigore, rilassamento. Vorrei racchiudere tutto in questo momento per esprimere l’essenziale dell’uomo con il minimo dei mezzi.
Tutto il resto, in questa mostra e nel suo catalogo, pubblicato da Marsilio, è puro e onesto lavoro. Difficile e curato quello svolto su commissione: mestiere, come lo definisce Sabine Weiss in una delle interviste del video. Atteso, inseguito o riconosciuto come si riconoscono le emozioni, quello che forma il corpus delle fotografie più personali. Tra queste, le immagini scattate oltreoceano aggiungono un altro tassello alla comprensione della fotografia umanista di Sabine Weiss. Ci sono quel mosso alla Robert Frank, quell’insicurezza poco parigina, le figure tagliate in primo piano, l’occhio sarcastico e dolce-amaro di William Klein. Le pagine del New York Times incorniciate sulla parete rivestono l’esperienza americana di Sabine Weiss con il vestito più brillante e appariscente, quello più facile da consumare nell’immediato: l’allegra visita di una parigina a New York. Oggi, settant’anni dopo, più che una “nota ironica personale e molto frenchie”4, le stampe esposte sembrano mostrare una forte e interessante permeabilità della loro autrice al genius loci: «lo “spirito del luogo” che gli antichi riconobbero come quell’“opposto” con cui l’uomo deve scendere a patti per acquisire la possibilità di abitare»5.
Nell’ultima intervista del video, Weiss chiarisce al proprio interlocutore cosa significhi per lei fotografare: essere testimone, dice. La fotografia ha, per Sabine Weiss, un valore testimoniale. La parola testimonianza torna, sempre più spesso, anche nei discorsi che svolgiamo noi, osservatori di inizio secolo, intorno alla fotografia. Lo avete notato? Non solo la usiamo di più, ma la mettiamo in risalto più di quanto non si sia mai fatto in passato. La fotografia testimonianza è quella di cui parla Michele Smargiassi nel suo libro del 20156. È anche la fotografia apprezzata da Pasolini, quella con la quale compone la sua Iconografia ingiallita e con la quale ferma inesorabilmente il flusso di immagini in movimento di cui si nutre La rabbia. È grazie alla nostra nuova attenzione per la fotografia testimonianza che abbiamo imparato a riconoscere quale ruolo rivestisse questa fotografia negli esperimenti verbo-visivi di Pasolini, che abbiamo capito quanto si fosse fuori strada nel pensare a Pasolini come a un autore genericamente disinteressato al mezzo fotografico. Testimonianza è la parola che usa Marguerite Duras, un’autrice abituata a scegliere parole precise e secche, per dire ciò che crede di avere imparato, a proposito della fotografia, da un altro fotografo umanista: Édouard Boubat7.
Se non è mancata la fotografia testimonianza in passato, se non sono mancati coloro che a questa fotografia tendevano e che a questa fotografia guardavano, è certo che oggi è di questa fotografia che abbiamo bisogno. Ma come è fatta questa fotografia? Come molti fotografi, soprattutto quelli delle generazioni passate, Weiss afferma di sentirsi più artigiana che artista. Mi tornano in mente le parole di David Campany. In Così presente, così invisibile, conversando con Lucas Blalock, lo scrittore e critico inglese ribalta la questione affermando che tutta l’arte, fotografia compresa, è documento: di ciò che c’è nell’immagine, ma anche documento dell’atteggiamento dell’autore nei confronti dell’immagine e del mondo. Per i fotografi umanisti, Weiss compresa, la fotografia è il risultato di un incontro. In una intervista rilasciata a Le Monde nel 2020, la fotografa svizzero-francese ormai novantaseienne ribadisce che una fotografia è potente se riesce a “farci sentire l’emozione che il fotografo ha provato di fronte al soggetto”8. La fotografia, concordano il giovane curatore inglese e la veterana della fotografia umanista francese, può testimoniare e documentare anche questo. Senza avventurarci nelle ontologie della fotografia con la effe maiuscola, possiamo fermarci a rilevare come la nostra nuova attenzione alla fotografia testimonianza, non dicendo nulla di nuovo su questa fotografia, su ciò che è, su come è fatta e da chi, dica molto su ciò che stiamo cercando in essa noi, noi osservatori di questo inizio di secolo, sempre meno dediti all’esercizio contemplativo, sempre più disposti a interrogare le immagini.
Weiss, Sabine. Sabine Weiss : intimes convictions. Parigi, Contrejour, 1989.
Barthes, Roland. La camera chiara. Einaudi, 2003, pagg. 35-36.
“Sabine Weiss si sente in sintonia con le teorie esposte da Edward Steichen nella mostra The Family of Man, presentata nel 1955 al Museum of Modern Art di New York (MoMA) che, con ambizione di pace, mette l’accento sull’universalità dell’esperienza umana e sulla capacità specifica della fotografia di testimoniarla.” Chardin, Virginie (a cura di). Sabine Weiss: la poesia dell’istante. Marsilio, 2022, p. 10.
Ibid.
Christian Norberg-Schulz e Anna Maria Norberg-Schulz, Genius Loci. Paesaggio, ambiente, architettura, Documenti di architettura, Milano, Electa, 1992, p. 11.
Smargiassi, Michele. Un'autentica bugia. La fotografia, il vero, il falso. Contrasto, 2015.
Ne riparleremo.
Chardin, Virginie (a cura di). Sabine Weiss: la poesia dell’istante. Marsilio, 2022, p. 11.