Ha ragione Afonso Dias Ramos1. Sono sentieri talvolta già percorsi quelli lungo i quali ci accompagna Ariella Azoulay. Non abbiamo bisogno di qualcuno che ancora ci rammenti cosa siano, strutturalmente, gli archivi e i musei. La sua critica alla Dichiarazione universale dei diritti umani, l'analisi delle conseguenze dovute alle decisioni prese dalle Nazioni Unite al termine della Seconda guerra mondiale, ci riporta all'ultima rilettura di Nazioni e nazionalismi di Eric Hobsbawm. Mentre aspettiamo l'edizione italiana di Potential History2, augurandoci di non dover attendere, al solito, quel decennio divenuto accademico come il quarto d'ora, guardiamo le mostre, le raccolte, i libri e gli articoli di Azoulay prendere la forma di un edificio dalle fondamenta ampie e solide.
Se la condizione palestinese è il sintomo di una malattia globale3, di un virus creato nel laboratorio della pace imposta sulla base dell'autodeterminazione dei popoli al termine della Seconda guerra mondiale - ma dovremmo forse dire rafforzato e reso più aggressivo considerando l'ampiezza temporale dell'analisi di Potential History che attraversa i secoli risalendo all’espulsione degli ebrei e dei musulmani dalla Spagna del 1492 -, non v'è dubbio che tale sintomo sia stato studiato a fondo da Azoulay, dal suo apparire nel 1948 ad oggi.
La fotografia e il concetto di cittadinanza sono, nel lavoro di Azoulay, allo stesso tempo oggetto di ricerca e strumento. La cittadinanza della fotografia4 consente di osservare le tracce del passato oltrepassando confini territoriali e ruoli prestabiliti e imposti. Come cittadina israeliana, Azoulay reclama il diritto di non essere carnefice; raccoglie, archivia ed espone immagini fotografiche che interroga e alle quali presta voce.
Nascono così Atto di Stato. Palestina-Israele, 1967-2007. Storia fotografica dell'occupazione, pubblicato in Italia da Mondadori nel 2008, e From Palestine to Israel: A Photographic Record of Destruction and State Formation, 1947-1950 (Pluto Press, 2011). Sono lavori di ricerca che diventano mostre e poi libri affinché possano raggiungere un pubblico il più ampio possibile.
Atto di Stato raccoglie più di 700 fotografie che ci insegnano lentamente a leggere i segni tracciati sull'immagine dalle persone fotografate. Impariamo, col fiato corto, a leggere le loro espressioni e i loro gesti; le incontriamo a ogni voltar di pagina in uno spazio pubblico di reciproco riconoscimento: loro non più profughi o rifugiati bensì cittadini espropriati che reclamano il diritto di tornare alle loro case, noi non più osservatori esterni e testimoni della violazione dei diritti altrui, ma cittadini alla pari in uno spazio di condivisione che ci svela il vero ruolo di chi, per decenni, ha preteso di governare sulla base di assunti e divisioni create ad artificio.
Al dramma dei palestinesi nessuno ha guardato fino alla prima Intifada: la normalizzazione dell'espulsione e dell'esproprio ha funzionato a meraviglia e col benestare delle Nazioni Unite. From Palestine to Israel ci chiarisce l'artificio, la strumentale separazione tra due popoli che hanno provato a convivere, a collaborare, a discutere e negoziare alleanze: la "soluzione" è stata cancellata nel maggio del 1948 con la dichiarazione dello Stato di Israele.
Le prove della possibile e pacifica convivenza erano lì, nei documenti, nelle fotografie, si fosse provato a cercarle e a valutarle per ciò che rappresentavano, si fosse provato a considerare l'organizzazione degli archivi per ciò che è: una funzione del governo che mira a presentare gli eventi in una forma sterilizzata, chiusa e apparentemente inevitabile; d'altra parte, non è soltanto ai regimi democratici che Azoulay indirizza il proprio j'accuse, ma anche agli storici di professione: la fotografia conservata e studiata come documeno storico e politico è storia recente. Da qui l'idea, mutuata da Walter Benjamin, di un passato incompleto e con possibilità latenti, di un ritorno a quel grado zero della storia in cui sarebbe stato possibile scegliere una strada diversa, per provare a percorrerla immaginando e creando un diverso futuro.
Civil imagination
Questo ruolo civile dell'immaginazione che si dispiega implacabile in Potential History è già presente, come possibilità latente, in Civil Imagination: ontologia politica della fotografia (Postmedia Books, 2018), un libro in cui la teoria della fotografia si intreccia con il resoconto della devastante condizione di una popolazione esclusa, con mezzi subdoli e con reiterati abusi, dal diritto di cittadinanza.
Civil Immagination sorge da una serrata autocritica. Alla base, il fraintendimento di Walter Benjamin che ha portato a quella diffusa tendenza a criticare la dimensione estetica dell’immagine fotografica – ma non solo: si pensi, per fare l’esempio più noto, all’opposizione fra realismo e astrattismo nell’arte italiana del secondo dopoguerra. Per dare spazio all’immaginazione e all’intento civile come modus operandi (“la cura per noi stessi, la cura per gli abitanti del mondo comune, la cura per il mondo stesso”), Azoulay ridefinisce la categoria del politico così da sfuggire a due trappole del pensiero: quella del “giudizio di gusto politico” e quella del politico come relazione con il potere.
Sulla scia di Kant e Hannah Arendt, l’opposizione tra estetico e politico, nata dal fraintendimento di Benjamin, diventa la formulazione riflessiva di una regola in base alla quale il critico e il fruitore riconoscono la presenza delle due categorie all’interno di un’opera d’arte. Questo modo di procedere, avverte Azoulay, è tipico dei discorsi che si svolgono all’interno del paradigma dell’arte quando l’estetica si confonde con lo stile cessando di raccogliere sotto di sé ogni fenomeno che si trovi a disposizione dei sensi.
Confondendo stile ed estetica e formulando il giudizio di gusto che oppone estetico a politico, il paradigma dell’arte pone il politico sullo stesso piano dello stile. Allo stesso modo, tale giudizio di gusto considera il politico e l’estetico come caratteristiche dell’immagine dimenticando che la politicità “non è qualità che possa attribuirsi a una singola persona o cosa, ma implica una serie di rapporti tra esseri umani in una dimensione plurale”. La politica nasce tra gli uomini, in mezzo a loro, come forma di relazione e la fotografia non è che una delle diverse manifestazioni di questo spazio.
Lo sguardo specialistico che decide cosa è estetico e cosa è politico può escludere dal proprio discorso le persone fotografate, può escluderle dallo spazio civile e dalla cittadinanza della fotografia. Nel paradigma della cultura visuale, al contrario, tutti i partecipanti all’evento fotografico ci chiedono di relazionarci con loro, di attivare uno “sguardo pratico” che ricostruisca le tracce lasciate da determinate azioni sull’evento. L’evento fotografato e lo strumento che lo ha prodotto sono coinvolti nell’evento fotografico, fanno parte dell’ontologia politica della fotografia. La macchina fotografica, con la sua sola presenza, induce le persone a mostrare le proprie condizioni, a stabilire un contatto con il fotografo e con coloro che avranno la possibilità di osservare l’evento fotografato.
Enunciando i principi dell’ontologia politica della fotografia, Azoulay propone quello che lei stessa definisce un azzardo teorico: la possibilità che l’evento fotografico prenda forma alla sola presenza della macchina fotografica, anche in assenza di uno scatto dell’otturatore. L’ipotesi non è azzardata: nella storia della fotografia giornalistica non si contano gli eventi che dimostrano come la macchina fotografica sia davvero un oggetto “capace di creare forme efficacissime di entusiasmo e condivisione. Un oggetto che produce eventi ben al di là delle foto che si prevede nascano grazie alla sua mediazione, e che in ogni caso non sono necessariamente soggette a un controllo totale da parte di chi esegue lo scatto”. Lo scatto dell'otturatore, questa "rasoiata sul mondo" come ebbe a definirla Philippe Dubois, il "frammento" di Susan Sontag, diventa, nell'edificio teorico e pratico di Azoulay, metafora della storia, violenza imperialistica che seziona il mondo, spartisce, saccheggia.
In Civil Immagination, dopo aver tracciato la teoria di una ontologia politica della fotografia e dopo aver ripensato il politico, Azoulay elabora un saggio di cultura visuale applicato a serie fotografiche relative a paesaggi urbani, architetture e oggetti che scandiscono la quotidianità della popolazione palestinese e di quella israeliana nei Territori occupati. Barriere visive, barriere che ostruiscono la circolazione libera di beni e persone, macerie lasciate a fissare la sensazione di una condizione di vita inalterabile, la distruzione delle case come pratica di regime. Due popoli che non si incontrano, quello dei governati che accettano la relativa tranquillità di una protezione apparente e quello dei non governati che utilizzano le macerie come luogo di incontro e ritrovo.
Nello spazio politico della fotografia, “persino quando la foto non mostra persone, il contesto circostante sarà sempre fatto di luoghi creati dall’uomo per abitarvi, fatti con le sue mani e utilizzati per le azioni di ogni giorno.” Le fotografie sono sempre una fonte di conoscenza, anche quelle scattate dai carnefici, anche quelle raccolte dal regime con lo scopo di migliorare e raffinare le proprie performance nel campo della distruzione, anche quelle mai viste, censurate, nascoste, distrutte, mai fatte.
Nel paradigma della cultura visuale si insegna a guardare oltre ciò che gli apparati di potere pretendono di dare a vedere: uscire dall’inquadratura, leggere ciò che nell’immagine è nascosto, smontare le attribuzioni di senso gestite dal potere attraverso descrizioni, catalogazioni, contestualizzazioni, non dare nulla per scontato. Avvicinarsi all’evento fotografico come ad un percorso di cui non si conosce il punto di arrivo, ma che non dovrà in alcun modo coincidere con la foto, chiudersi su di essa come in una tautologia.
Nell’epilogo di Civil Imagination, Azoulay si rivolge alle organizzazioni umanitarie chiedendo loro di ridisegnare “il discorso sui diritti umani in modo da focalizzarsi sul regime”, sui militari pentiti, sulla popolazione governata, privilegiata, protetta, per indicarla come altra categoria di cittadini colpiti dalla violazione dei diritti umani; coinvolti, per una sorta di complicità inconsapevole, con i disastri causati dal regime. Disimparare l'imperialismo, come hanno fatto i militari israeliani di Breaking the Silence. Riscrivere la Dichiarazione universale dei diritti umani, partendo da nuovi diritti basilari: "the right not to be a perpetrator, the right not to ruin or abuse the land, property, or life-world of others".
Ramos, Afonso Dias. «Potential History: Unlearning Imperialism by Ariella Aïsha Azoulay». Análise Social, vol. 55, n. 235 (2), Instituto Ciências Sociais da Universidad de Lisboa, 2020.
Azoulay, Ariella. Potential History: Unlearning Imperialism, Verso Books, 2019.
Azoulay, Ariella. «Palestine as Symptom, Palestine as Hope: Revising Human Rights Discourse». Critical Inquiry, vol. 40, n. 4, The University of Chicago Press, 2014.
Azoulay, Ariella. The Civil Contract of Photography, Zone Books, 2008.