#15. Il vero specchio di India Song
Le fotografie di Édouard Boubat al cuore del film di Marguerite Duras.
Tra i colori di Marguerite Duras, il bianco e nero delle fotografie di Édouard Boubat che ben presto ci sembrano il vero specchio di India Song - e che ci guarda…
Julien Cendres - La Perrière, aprile 2004.
(tratto da: Boubat, Édouard e Bernard Boubat, Genevieve Anhoury. Edouard Boubat: una monografia. Contrasto, 2004.)
Nel 1974 Édouard Boubat e Marguerite Duras si conoscono a Parigi.1 Per l’anno in questione, restano nell’opera dei due autori due testimonianze, due tracce.
La prima testimonianza è il ritratto di Marguerite Duras, fotografata da Boubat nella sua casa di Parigi. Sullo sfondo fuori fuoco, libri, un vaso di fiori e il ritratto fotografico di un bambino, forse Paulo, il fratello maggiore di Duras deceduto nel 1942, o forse Jean, il figlio di Marguerite Duras e Dionys Mascolo. In primo piano, gli occhiali quadrati della scrittrice velano uno sguardo sereno e sorridente, le mani nodose, pesantemente ricoperte di anelli, reggono l’immancabile sigaretta. Sarebbe stata questa la fotografia che Boubat avrebbe inserito nel suo Miroirs2 se Marguerite Duras avesse accettato di partecipare al gioco concepito da Michel Tournier e dall’editore Denoël? Non ho le prove, ma è difficile immaginare che Duras non rientrasse tra gli scrittori invitati a prestare il proprio volto e la propria penna per la realizzazione di questo libro di ritratti e autoritratti.
D’emblée beaucoup refusèrent. Les uns parce qu’ils jugeaient le jeu indigne d’eux, d’une coupable et profanatoire frivolité. D’autres gémirent qu’ils étaient trop vieux, qu’ils auraient accepté avec plaisir vingt ans auparavant, mais que leurs propres rides ne pouvaient les inspirer. D’autres ne nous cachèrent pas qu’un livre entier consacré à leur seul visage leur aurait agréé, mais qu’ils répugnaient à se commettre avec la tourbe de leurs confrères et consœurs.
Volendo scegliere, tra le motivazioni più frequenti, indicate da Tournier nell’introduzione di Miroirs, quella che avrebbe potuto spingere Marguerite Duras a rifiutare l’ipotetico invito, scelgo il rifiuto a “compromettersi”, per ragioni personali e professionali. C’è un precedente: il rifiuto a unirsi ai Nouveaux romanciers per la nota fotografia scattata a Parigi da Mario Dondero. Non avrebbe potuto costituire ragione del rifiuto il rapporto conflittuale con la propria immagine, né il considerare un’immagine, e la scrittura sull’immagine, operazione profanatoria e frivola. Con la descrizione dei cambiamenti subiti dal proprio volto, Marguerite Duras apre il suo romanzo più famoso.
Entre dix-huit ans et vingt-cinq ans mon visage est parti dans une direction imprévue. A dix-huit ans j’ai vieilli.3
Un invecchiamento imprevisto e brutale cui Duras assiste con interesse crescente come ci si interessa allo svolgimento di un intreccio, alla lettura di un racconto. Quel volto, invecchiato a diciotto anni, si è conservato da allora uguale a se stesso, scrive Duras all’inizio dell’Amant, ha mantenuto le sue proporzioni, la sua forma; ne è mutata soltanto la materia, è divenuto un volto lacerato, distrutto. Nel 1984, Duras non prova alcun imbarazzo nel descrivere i segni che il tempo ha tracciato sulla propria pelle. Non ne avrebbe provato nessuno nemmeno dieci anni prima.
La seconda testimonianza la troviamo nell’opera di Duras e precisamente in India Song, il film che Duras realizza nel 1975. “Io ti presto le mie fotografie di Lella, ma tu adesso ti lasci fotografare”. Lo immagino così lo scambio di favori tra Boubat e Duras, con il fotografo che finalmente apre l’otturatore sull’immagine negata nel 1972; una concessione suggellata dal sorriso gentile, divertito e complice della scrittrice francese.
Ci sono tre fotografie firmate da Édouard Boubat in India Song. Sono fotografie di Lella F., il primo amore di Boubat, la sua prima moglie. Non si può fare a meno di pensare che le fotografie di Lella “rappresentino” una delle diverse incarnazioni di Anne-Marie Stretter, personaggio fondamentale nell’opera di Marguerite Duras, e che, più ancora di Delphine Seyrig che presta la propria figura alla rievocazione degli ultimi giorni di Anne-Marie Stretter da parte delle voci fuori campo di India Song, ne incarnino lo spirito, l’archetipo. Mi chiedo chi mai, riconoscendo le fotografie di Boubat nel film di Duras, abbia potuto non incuriosirsi, non desiderare di conoscere le ragioni di questa scelta.
Smetto di immaginare e rivolgo qualche domanda alla professoressa Edda Melon, una delle più grandi esperte italiane di Marguerite Duras e della sua opera, fondatrice nel 1992, presso l’Università di Torino, del gruppo di ricerca Duras mon amour.
Edda Melon, aprendomi la biblioteca del suo gruppo di ricerca, inizia subito a fornire indicazioni che aiutano a districarsi tra il vero e il verosimile, a familiarizzare con la dimensione evocativa, in qualche modo sospesa, dell’opera di Duras, che domina sulla verosimiglianza della materia narrativa.
“Conosco solo il suo nome. Cioè mi ricordo il nome” - dice Duras a proposito di Lella in una intervista con Dominique Noguez che risale al 1984. “Dunque lei, Anne-Marie Stretter, non è rappresentata nel film. E non viene detto che le foto siano di lei. È una delle possibilità del film.”4
I film di Duras chiedono allo spettatore di giudicare, di “fare uno sforzo adulto”.5
Dal libro di Daniela Trastulli sul cinema di Marguerite Duras, riporto:
“Paradossalmente, in un’atmosfera di evocazione così accuratamente creata, la Duras si prende l’inattesa licenza di indicare, quasi brechtianamente, il distacco tra immagine mitica e attrice che la impersona, senza per questo provocare un calo nella tensione emotiva dello spettatore. Ci troviamo di fronte ad un enunciato che svela immediatamente i meccanismi della finzione: la foto è l’archetipo della storia, congelata in un «vissuto» che appartiene irrevocabilmente e lucidamente ad una vita passata ormai conclusa. La donna ritratta è il «tema» attorno al quale si organizzano gli elementi della finzione e della creazione cinematografica. La palese diversità di Delphine Seyrig dalla donna della fotografia pone sotto i nostri occhi apertamente il suo status di attrice che impersona, nell’evocazione cinematografica, la protagonista di una realtà di cui si avverte l’esistenza a monte dell’opera senza che quest’ultima degeneri nella banalità della riproduzione realistica e nel kitch della rassomiglianza.”6
Lella F. resta Lella F., Delphine Seyrig resta Delphine Seyrig. Anne-Marie Stretter resta Anne-Marie Stretter, integra nella sua dimensione mitica e archetipa. Sulla pellicola cinematografica, come in un palinsesto, passato e presente coincidono.7 Tutto è già concluso, tutto è già scritto. Un uomo che muore a trentacinque anni è, in ogni momento della sua vita, un uomo che morrà a trentacinque anni. Entelechia: un frammento di eternità.8 “È morto e sta per morire”, avrebbe detto a sua volta Barthes.
“La mancata incarnazione del personaggio nella Seyrig, rende lei (come noi) spettatrice di una storia che dipende unicamente dalle parole delle voci off, le uniche a sapere la storia, le sole che possono far proseguire quest’illusoria rappresentazione di un mondo di ricordi.”9
In India Song, il «tema» attorno al quale si organizzano gli elementi della finzione è il processo creativo, è la creazione cinematografica che si verifica quando chi scrive cessa di scalfire “l’ombra interna”, quando l’ombra interna cessa di scorrere all’esterno attraverso il linguaggio. Il cinema di Marguerite Duras, dello scrittore che ha cambiato il proprio posto ponendosi nel luogo in cui si pone lo spettatore10, è un cinema fatto di fotografia, di un linguaggio che non è un linguaggio, un cinema fatto con il noema barthesiano della fotografia prima ancora che Barthes ce ne fornisse la formula. “Si è sempre sopraffatti dallo scritto, dal linguaggio, quando si traduce in scritto; non è possibile rendere tutto, rendere conto di tutto. Mentre nell'immagine si scrive interamente, tutto lo spazio filmato è scritto, è cento volte lo spazio del libro”, dice Duras alla giornalista Michelle Porte nel 1976.11 In un confluire di passato, presente e futuro, la fotografia, l’immagine, accoglie l’infinito presente del già scritto come lo scritto propriamente detto non riesce più a fare. L’immagine lo assorbe in profondità, come gli specchi di India Song assorbono e dilatano lo spazio dell’inquadratura.
“Lo specchio è lo spazio filmico di India Song e con esso il concetto di "oggettività della rappresentazione cinematografica" viene messo in crisi: non esiste immagine senza "l’altra immagine", senza il suo rovescio.”12
Nel testo intitolato India Song. Texte Theatre Film, pubblicato da Gallimard nel 1973, India Song è ancora un racconto, un récit, destinato al teatro13, che discende in parte da Le ravissement de Lol V. Stein e in parte da Le Vice-consul. A questo livello di lavorazione del testo, la fotografia è assente. Scendendo più concretamente verso le fasi di lavorazione della sceneggiatura, troviamo uno scritto, pubblicato nel 1975, che Duras definisce découpage e che possiamo considerare come un insieme di appunti preliminari, una traccia per la stesura della sceneggiatura definitiva.14
Originariamente, nel découpage, il passato di Anne-Marie Stretter veniva evocato dall’apparizione di un’attrice vestita di nero. Si tratta della stessa femme en noir che in Le ravissement di Lol V. Stein porta via dal ballo di S. Thala il fidanzato di Lol, ossia quel Michael Richardson che è ancora con lei, con Anne-Marie Stretter, in India Song.
In una nota a piè di pagina, Duras spiega che la femme en noir avrebbe dovuto comparire sia in fotografia, nella prima parte del film, sia di persona, nella seconda parte. Era anche previsto un incrociarsi della femme en noir con una Anne-Marie Stretter (Delphine Seyrig) vestita di bianco. Le due donne avrebbero dovuto incrociarsi sulla scena senza vedersi. Nel découpage, nella parte in cui Duras descrive il ricevimento all’ambasciata, si legge: “Nell’entrata, sola, lenta, la femme en noir della fotografia è arrivata e guarda il salone privato. Arriva dal parco”. In nota, Marguerite racconta: “La fotografia di questa donna in nero doveva essere quella della morta. Avevo chiesto a Nickie (sic.) de Saint-Phalle di fare questa parte. Si ritrovava questa donna in nero durante il ricevimento. La sua fotografia veniva vista solo una volta nella prima parte. Nell’ultimo découpage è rimasta solo la foto”. Dunque, è tra l’ultimo découpage e la sceneggiatura definitiva che l’immagine di Lella entra nel progetto e nel décor del film sostituendo la fotografia e il personaggio della donna in nero.
Nicki de Saint-Phalle, scrive Duras, “è stata sostituita da tre fotografie di una stessa donna fatte da Édouard Boubat dopo la guerra”. Ancora in fase di sceneggiatura, Duras approfitta della defezione di Nicki de Saint-Phalle per asciugare ulteriormente lo spazio della rappresentazione.15 Interamente calato nella dimensione della morte,16 India Song attrae la dimensione fotografica come in un processo osmotico.
Ragionando sulle fotografie di Édouard Boubat, Edda Melon nota ciò che nessuno, a quanto pare, sino ad oggi, ha ancora detto e scritto. È solo una delle possibilità del film, direbbe Marguerite Duras, ma più ci penso e più mi appare vera e non verosimile. Nel libro collettivo del 1975, in cui Duras pubblica il suo découpage, si specifica che due delle foto di Boubat inserite nel film erano state pubblicate nell’album Femmes, éd. Du Chene, nel 1972. Forse da qui, o da altrove, la fotografia di Lella e di Séguis, scattata da Boubat nel 1947 al largo dell’isola di Groix in Bretagna, può aver raggiunto l’immaginario narrativo ed evocativo di Duras. Non sarebbe quindi Lella la chiave per comprendere la presenza delle fotografie di Boubat in India Song, ma Séguis, o meglio ancora, la compresenza delle due donne e forse il rapporto spaziale tra le due figure nell’immagine.
La fotografia di Lella e Séguis sul battello nel 1947 permette di collegare il passato di Anne-Marie Stretter con il presente della creazione cinematografica e con il futuro dello spettatore che la storia già conosce. Le voci off, all’inizio del film, ascoltano il canto della mendicante e si dicono che sì, che un giorno, negli stessi anni, la blanche et l’autre si sono ritrovate insieme a Calcutta. La fotografia di Lella (Francia, 1949), sul pianoforte della hall dell’ambasciata di Francia a Calcutta, trasferisce sulla pellicola cinematografica la dimensione brechtiana del racconto, ma è più avanti, a metà del film, che tale dimensione si allarga fino a comprendere in un’unica contrazione di tempo e spazio l’intera opera durassiana, fino a comprenderne la cellula generatrice prima, quella che ebbe luogo nei primi anni della vita di Marguerite Duras, vissuti in Indocina.
In India Song, quando Anne-Marie Stretter balla con il giovane addetto all’ambasciata, il montaggio stacca sulla fotografia di Lella e di Séguis che si trova su di un ripiano, sotto uno specchio, tra le rose e i calici di champagne. Le voci degli altri invitati, “le voci perdute”, ricordano il passato di musicista di Anne-Marie. A diciotto anni, a Venezia, Anne-Marie suonava, come fosse una malattia; suonava, fino ad una sorta di suicidio.
Subito dopo, Anne-Marie e il giovane attaché lasciano la sala del ricevimento, escono nel parco dove risuonano le risate e il canto infantile della mendicante.
“L’ambasciatrice di Francia e la reietta di Calcutta sono due volti dello stesso destino femminile, al quale rispondono le lacrime dell’una e le risate folli dell’altra.”17
L’ultima parte di India Song si svolge sul delta del Gange, negli spazi residenziali riservati ai bianchi. Pochi minuti prima della fine, un’immagine della hall dell’ambasciata di Francia a Calcutta si insinua tra quelle della residenza di Francia alle isole, sul delta del fiume. Sul ripiano, sotto lo specchio, tra le rose e i bicchieri, la fotografia di Lella e Séguis è stata sostituita da una terza fotografia (Parigi, 1948). Ora la blanche, di profilo, è sola.
Una musica si poteva intendere nei pressi della residenza di Francia, quel giorno alle isole, dicono le voci off. Poi, il racconto del suicidio di Anne-Marie, infine una mappa, una carta geografica per ripercorrere il cammino della mendicante, indietro, sino al Laos, sino al Mekong.
Boubat, Édouard e Bernard Boubat, Genevieve Anhoury. Edouard Boubat: una monografia. Contrasto, 2004.
Boubat, Édouard. Miroirs : autoportraits. Denoël, 1973.
Duras, Marguerite. L’amant. Éditions de Minuit, 1984, pp. 9-10.
Duras, Marguerite. La couleur des mots, entretiens avec Dominique Noguez, Benoit Jacob, 2001.
Duras, Marguerite. Gli occhi verdi. ShaKe, 2000, p. 13.
Trastulli, Daniela. Dalla parola all’immagine. Viaggio nel cinema di Marguerite Duras. Bonini editore, 1982, p. 105.
“Le voci delle giovani donne, le nostre voci e quella di Viviane Forrester parlano della storia del passato. Invece le voci sotterranee, le voci perdute, le voci presenti durante il ricevimento, ne parlano al presente.” Daniela Trastulli nel suo libro del 1982 riporta queste parole di Marguerite Duras (N. Lise Bernheim. Marguerite Duras tourne un film. Editions Albatros, 1981, p. 122) notando come questa coesistenza dei tempi verbali nella sceneggiatura corrisponda ai diversi piani spazio-temporali in cui si svolge la narrazione.
Sciascia, Leonardo. “Il ritratto fotografico come entelechia”, ora in Sciascia, Leonardo e Diego Mormorio (a cura di). Sulla fotografia. Mimesis. 2021, p. 85.
Trastulli, Daniela. Op. cit., p. 105.
Duras, Marguerite. “Book and Film (New Statesman, gennaio 1973)”, ora in: Duras, M. Gli occhi verdi, Op. cit., p. 69.
Duras, Marguerite. I miei luoghi. Conversazioni con Michelle Porte. Edizioni Clichy, 2013.
Trastulli, Daniela. Op. cit., p. 107.
“«India Song» a été écrit en août 1972 sur la demande de Peter Hall, directeur du National Theatre à Londres.” Duras, Marguerite. India Song. Texte Theatre Film. Gallimard,1973, p. 8.
Blanchot, Maurice e Marguerite Duras, Jacques Lacan. Marguerite Duras. Albatros, 1975.
“Ho un rapporto distruttivo con il cinema. Ho cominciato a fare cinema per arrivare all'esperienza creativa della distruzione del testo. Adesso è l'immagine che voglio annullare, ridurre.” Duras, Marguerite. Gli occhi verdi. ShaKe, 2000, p. 51.
Trastulli, Daniela. Op. cit., p. 108.
«Mendicante indiana, La.» Voce redatta da Edda Melon per il Dizionario dei personaggi letterari, a cura di Franco Marenco, 3 voll., Utet, 2003.