Ian Ruhter, il collodio umido e lo spirito di Gordon Matta-Clark
Conosci Ian Ruhter? È uno dei numerosi fotografi che negli ultimi anni, dopo aver lavorato con il digitale, hanno deciso di tornare all’analogico. Come altri, Ian non si è fermato alla pellicola. Ha compiuto un percorso a ritroso fino a recuperare il collodio, una tecnica nella quale la manipolazione dei materiali si fa completa e inevitabile.
La settimana scorsa avevo suggerito ai nostalgici delle tecniche fotografiche antiche di dedicarsi al collodio e di abbandonare i procedimenti basati sull’impiego della gelatina animale. Non era mia intenzione far sobbalzare sulla sedia il lettore, ma devo ammettere che puntavo a un minimo di provocazione.
Trattandosi di un procedimento che richiede studi approfonditi e grande abilità, è stata per me una piacevole sorpresa, cercando fonti e autori per questo articolo, scoprire che il collodio umido è un legante ancora ampiamente utilizzato.
Descrivo brevemente la tecnica e la sua storia per coloro che non ne hanno mai sentito parlare1.
Breve storia del collodio umido
Fu Frederick Scott Archer a immettere nel ventaglio delle tecniche fotografiche allora in uso il procedimento al collodio umido. Era il 1851 e la nuova tecnica ebbe grande fortuna almeno fino al 1880. Fu subito apprezzata dalla comunità dei fotografi perché, contestualmente al nuovo legante, introduceva l’utilizzo del vetro come supporto.
Come supporto per il legante, il vetro aveva il pregio di restituire immagini nitide e precise. Eliminava dalle stampe quell’aspetto granuloso che era inconveniente dovuto alla fibrosità della carta, precedentemente utilizzata per la produzione dei negativi calotipici. La qualità dei risultati ottenibili con i negativi di vetro era talmente superiore rispetto ai procedimenti precedenti da rendere esigue, nell’opinione dei fotografi, le numerose difficoltà tecniche e pratiche che il collodio umido comportava rispetto alla calotipia e alla dagherrotipia.
Il collodio richiedeva che tutte le operazioni, dalla preparazione della lastra al fissaggio dell’immagine, fossero svolte in sequenza, senza porre tempo in mezzo e con la lastra sempre umida.
Una variante del procedimento, che permetteva di utilizzare lastre asciutte preparate in precedenza, fu messa a punto nel 1871. Consisteva nel mantenere il collodio permeabile alla soluzione di sviluppo aggiungendovi sostanze igroscopiche come gomma arabica, miele, ecc. Non si trattò di una vera soluzione al problema. I fotografi continuarono a usare le lastre umide, malgrado le difficoltà, perché con esse ottenevano risultati nettamente superiori.
Il negativo di vetro e il collodio furono introdotti come si è detto per la produzione di immagini negative da trasferire su carta emulsionata con albumina o collodio.
L’inventiva di Scott Archer, tuttavia, non tardò a individuare una variante del procedimento che consentiva di utilizzare le lastre di vetro come positivi. Queste fotografie presero in seguito il nome di ambrotipi, per una derivazione dal nome di colui che brevettò il procedimento dopo la morte di Archer. Un’ulteriore variante del procedimento, la ferrotipia, utilizzava lastrine di ferro come supporto per la produzione di positivi fotografici molto economici.
Nell’ambrotipia il comune negativo al collodio veniva sbiancato trattandolo con acido nitrico o bicloruro di mercurio. Lo ioduro d’argento annerito dalla luce si trasformava in argento metallico bianco. Osservata contro uno sfondo scuro - vernice, velluto, cartoncino nero, ecc. - l’immagine negativa appariva positiva.
Il pubblico di allora considerava l’ambrotipo come una specie di dagherrotipo, ma rispetto a quest’ultimo presentava numerosi vantaggi: eliminava l’inconveniente dei riflessi sulla superficie d’argento lucido, era molto più economico e richiedeva tempi di esposizione inferiori.
Il collodio è una soluzione vischiosa di nitrocellulosa in alcool ed etere. La nitrocellulosa si prepara sciogliendo la cellulosa, ossia il cotone puro, in acido nitrico. In base al modo in cui viene condotta la reazione si producono composti diversi. Il composto che si usa per la preparazione del collodio è una sostanza infiammabile chiamata anche fulmicotone.
Il nitrato di cellulosa asciugandosi rapidamente con l’evaporazione del solvente forma una pellicola dura e impermeabile. È per questa ragione che consente di ottenere risultati migliori se viene utilizzato quando è ancora umido. Tutti i procedimenti fotografici a sviluppo infatti si basano sulla penetrazione e sulla diffusione di prodotti chimici in soluzione acquosa nell’emulsione fotografica.
Prima di parlare di Ian Ruther diamo un’occhiata ad altri collodionisti - sì, si chiamano così. Quali sono le caratteristiche del collodio che ancora oggi attraggono coloro che decidono di tornare all’analogico?
Chi lavora oggi con il collodio sembra lasciarsi trasportare da un immaginario legato al passato, alla citazione postmoderna che sconfina talvolta nel fantastico e nel dark. La dimensione atemporale è la caratteristica alla quale più frequentemente si richiamano questi fotografi amanti dei chimici e dei processi manuali.
Il modello di riferimento maggiormente citato è Julia Margaret Cameron. Alcuni sembrano seguire, se non nei soggetti almeno nelle atmosfere e nel gusto estetico, mostri sacri della fotografia iconica come Jan Saudek e Joel Peter Witkin. C’è chi si dedica allo still life con intenti meno simbolici. C’è chi riesce a infondere nella tecnica uno spirito più fresco, meno ossessivo, senza annullare la sua vena vintage e un po’ nostalgica: Joni Sternbach, per esempio.
Molti usano il collodio nella ritrattistica, nel tentativo di ricreare quel senso di eternità di cui parla Walter Benjamin nella sua Piccola storia della fotografia.
Il procedimento stesso induceva i soggetti a vivere non fuori, ma dentro il momento: nella lunga durata della posa essi crescevano, per così dire, nell’immagine, il che è in netto contrasto con l’istantanea [...].
C’è ad esempio Victoria Will che, stanca di fotografare le solite facce al Sundance Film Festival, si è liberata della digitale e ha iniziato ad armeggiare con il collodio e le lastre di alluminio. Il risultato è davvero apprezzabile ma appunto, con quelle facce lì è più facile.
Anche in Italia c’è chi si dedica al collodio, o meglio, ci sono appassionati cultori delle antiche tecniche fotografiche che hanno esplorato questa difficile via. Aspetto un loro commento, un cenno, una alzata di mano.
Ian Ruhter è, tra tutti i fotografi sui quali mi è capitato di posare lo sguardo, colui che mi ha colpito maggiormente. Lo dico subito: i mood fantastici, surreali e nostalgici che ho citato sopra non mi piacciono. Mi piace invece Ian, che recupera una tecnica antica, non per rifugiarsi in un altrove fantastico, grottesco o semplicemente desueto ma, all’opposto, per mantenere saldamente il contatto con il mondo che lo circonda.
Come afferma lo stesso Ian, le qualità materiali e tattili dei suoi ambrotipi rappresentano un elemento fondamentale nel suo lavoro. Allo stesso tempo però, questi oggetti sembrano, soprattutto a coloro che come me si trovano a osservarli attraverso uno schermo, soltanto un momento, una tappa all’interno di un lavoro di tipo processuale che coinvolge rapporti, vissuti e il concetto di trasformazione. Questa caratteristica nel lavoro di Ian Ruhter mi ha fatto pensare a Gordon Matta-Clark.
Gordon era un architetto sui generis. Aveva studiato architettura, ma alla fine degli studi e dopo aver incontrato Robert Smithson aveva deciso che gli edifici lui li avrebbe distrutti invece di costruirli. I tagli e le trasformazioni che Gordon Matta-Clark effettuava sugli edifici in attesa di demolizione trovavano un esito e un canale di diffusione attraverso il mezzo fotografico. Nelle immagini di Gordon, come in quelle di molti altri artisti della sua generazione, il mezzo fotografico non si limitava a riprodurre e a diffondere: interagiva, leggeva, interpretava.
Nei lavori di Matta-Clark la fotografia svolgeva un ruolo nel gioco di alterazione percettiva e di destrutturazione dell’esperienza spaziale, ma ciò che qui interessa evidenziare, in relazione al lavoro di Ian Ruhter, è la matrice concettuale e sociale dalla quale emergono entrambi i percorsi.
C’era una forte spinta anarchica nell’opera di Matta-Clark che lo portava a intervenire su palazzi in attesa di demolizione all’interno di aree urbane particolarmente significative dal punto di vista sociale e politico. La sua prima opera di “anarchitettura” risale al 1973 e consiste di una serie di tagli fatti sugli ingressi di alcuni palazzi abbandonati nel Bronx. Era un’operazione che aveva una evidente valenza metaforica: gli interventi di Gordon Matta-Clark e dei suoi amici del gruppo Anarchitecture erano concepiti per il fallimento, per la distruzione, come i puzzle di Percival Bartlebooth, come la società speculativa e capitalista dalla quale emergevano.
Ian Ruhter non mi ha incuriosito per le sue manie di grandezza, né per le sue bellissime immagini della Yosemite e della Monument Valley. Non è stato l'unico a trasformare un tir in una macchina fotografica con annessa camera oscura, non so se sia stato il primo, ma non credo stia in questi eventuali primati il valore del lavoro di Ian.
Bombay Beach, in California, è una cittadina costruita negli anni '50 sulle sponde di un lago artificiale e ormai quasi completamente abbandonata. Un luogo in cui sembra si respiri lo spirito di Gordon Matta-Clark, quello che insieme a Carol Goodden diede vita a FOOD.
Ian Ruhter ha deciso di recuperare una delle vecchie case abbandonate di Bombay Beach e di trasformarla in una struttura che permette di impressionare e sviluppare lastre al collodio attraverso un obiettivo inserito sulla parete anteriore dell’edificio.
Ted, un abitante centenario di Bombay Beach costretto a trasferirsi nella vicina Slab City, è diventato il protagonista di questa metafora del degrado e della trasformazione. La sua immagine, proiettata dalla lente dell’obiettivo all’interno dell’edificio, ha riqualificato la struttura come abitazione, anche se soltanto per i pochi secondi necessari a impressionare la lastra.
L’operazione ha una matrice concettuale evidente e i video con i quali Ian documenta i propri lavori svolgono una funzione che va al di là della semplice documentazione, esattamente come accadeva per le opere della seconda avanguardia novecentesca.
Nei lavori di Ian, la lastra sviluppata e fissata è l’oggetto che resta dopo l’azione. Reca in sé il valore della lavorazione manuale. Ne conserva gli aspetti tattili, le imperfezioni. Manifesta il sentimento che ha reso possibile tutto il lavoro richiesto dalla produzione di un oggetto come questo. L’opera vera però nasce con il rapporto, con il recupero di uno spazio, nella condivisione di un’esperienza destinata a concludersi, a negarsi, a fallire. L’opera vera è quella che Ian conduce ogni giorno, da quando ha deciso di abbandonare la professione di fotografo corporate per dedicarsi al collodio e alla propria vita.
Scaramella, Lorenzo. Fotografia : storia e riconoscimento dei procedimenti fotografici. Edizioni De Luca, 2003.