#16. "Miroirs" di Édouard Boubat
Il mistero Boubat, o la capacità di generare una festa ariosa a partire da ottantatré ritratti di scrittori (in realtà ottantadue) che non amano se stessi.
Sto per scrivere una newsletter zoppa? Lo saprò quando avrò finito di scriverla. Al momento è indiscutibile che negli ultimi tempi io stia dedicando alla fotografia una parte minore di me stessa perché qualche porzione di me si trova ad essere come risucchiata da altre incombenze. Non essendo questo mio scrivere riconducibile all’ambito lavorativo, va da sé che a ogni altro evento che giunga a scardinare gli oliati ingranaggi della quotidianità sia concesso di occupare un pezzetto della quotidianità stessa, sottraendolo ad altre occupazioni, marginali quanto essenziali ma non produttive se osservate dal punto di vista della società in cui viviamo quali ad esempio il mangiare, il dormire e, per me, lo studio della fotografia.
Per questa prima newsletter zoppa - dico prima poiché sospetto che potranno esservene altre - recupero un accenno inserito nella newsletter del mese scorso e lo approfondisco senza relegare questo piccolo passo indietro nella categoria degli escamotage perché ritengo che l’argomento meriti davvero qualche ulteriore riflessione.
Nella newsletter di marzo accennavo a Miroirs di Édouard Boubat1, ricordate? Potrei sbagliare, ma credo sia uno dei libri fotografici di Boubat meno noti malgrado si tratti di un fotolibro molto interessante per diverse ragioni.
Il caso lo ha portato sulla mia scrivania quando avevo appena finito di leggere il breve saggio di Sciascia sui ritratti fotografici2; così, una serie di link tra i due libri si è aperta nella mia testa a partire da alcune tematiche di fondo. Queste tematiche, che appartengono al tema del ritratto fotografico in generale, rappresentano uno dei punti di interesse del libro di Boubat, gli altri si possono ricordare in ordine sparso e sono: la figura di Michel Tournier come ideatore del libro, una figura poco nota che invece tanto ha dato al mondo della fotografia e che potrebbe essere maggiormente indagata da coloro che si occupano dei rapporti tra fotografia e scrittura; la qualità del lavoro di Édouard Boubat, la sua peculiarità, che l’introduzione dello stesso Tournier aiuta a riconoscere anche nel Boubat ritrattista; fino a tematiche che coinvolgono l’umanità stessa, tematiche filosofiche se non religiose, che contribuiscono a identificare in modo più preciso i confini di quella fotografia umanista all’interno della quale si ascrive la fotografia del fotografo parigino.
Il ritratto fotografico come entelechia3, di Leonardo Sciascia, sorse da una specie di intuizione dovuta alla lettura della Camera chiara di Barthes, intuizione poi inseguita negli anni attraverso i diversi incontri dello scrittore siciliano con il tema del ritratto fotografico e giunta a forma definitiva grazie alle fotografie di Pasolini scattate da Dino Pedriali.
Ma Il ritratto fotografico come entelechia ha, come proprio retroscena, un secondo testo, ancora più interessante per noi se relazionato al libro di Tournier e Boubat. È Ferdinando Scianna, in uno dei suoi articoli contenuti in Obiettivo ambiguo, a rivelare il legame sotteso tra i due testi di Sciascia, quello già citato e il noto Il volto sulla maschera4.
Scrive Scianna in «Sciascia e il ritratto: entelechia e labirinto»5:
Quel testo sulla mostra di Torino si conclude con la domanda, che di fatto lo sottende e che ovviamente ora qui ci occupa: perché una mostra di ritratti fotografici di scrittori? Sciascia risponde, in maniera un poco tecnica e quasi burocratica, che quando dentro una casa editrice si cerca un tema che peculiarmente appartenga alla fotografia e si affaccia quello del ritratto, non si può non pensare che a ritratti di scrittori. “Ma”, aggiungeva concludendo, “altra se ne può cercare meno semplice e più mediata: che lo scrittore è, tra gli uomini, il più ‘ignoto a se stesso’; per quelle motivazioni che rapidamente, ma profondamente, Diderot intuisce quando lo pone in paragone al commediante”.
“Perché una mostra di ritratti fotografici di scrittori?” Anche Tournier, nella sua introduzione a Miroirs, sembra sentirsi in dovere di fornire una ragione razionale per la realizzazione della sua idea. Il concept di Miroirs consiste nell’affiancamento di un ritratto fotografico a un testo scritto, avente come soggetto il ritratto stesso, fornito dalla persona ritrattata. Che le persone ritratte siano scrittori è, scrive Tournier, elemento non necessario ma comodo, utile cioè alla qualità del risultato finale. Spiegazione tecnica e un poco burocratica anche questa, che rischia di celare la ragione vera, che viene data un po’ in sordina: la ragione d’essere del libro, quella davvero essenziale, è l'idea del ritratto come scrittura, come opera autoriale che coinvolge l’autorialità dello scrittore, colui che è capace di inscrivere la propria immagine sulla lastra fotografica in un lavoro svolto di concerto con colui che la lastra fotografica espone. Niente di più lontano si direbbe da quella obiettività e attendibilità fisica della fotografia di cui intelligentemente discute Sciascia al principio del suo testo introduttivo a Ignoto a me stesso.
Il tema del volto mostrato dallo scrittore all’obiettivo fotografico richiama il tema affrontato da Sciascia nel Volto sulla maschera. Nel suo Paradoxe sur le comédien, Diderot aveva ribaltato sulla propria attività di scrittore quel paradosso da lui originariamente rinvenuto nella particolare attività di colui che recita, riconoscendo in questo modo e ammettendo una propria debolezza perché la sensibilità, necessaria all’immedesimazione è, nel pensiero di Diderot, peculiare caratteristica degli ingegni mediocri che non si preoccupano di dominarla con l’insensibilità. Estendendo la necessità del controllo razionale sull’immedesimazione con il personaggio che l’attore impersona, all’attività che è propria dello scrittore, Diderot lasciava riverberare su quest’ultima anche quel dongiovannismo che caratterizza l’attività di chi per professione interpreta parti e personaggi differenti.
Per ammissione dello stesso Tournier, Miroirs avrebbe dovuto contenere una serie di autoritratti perfetti, capolavori di creatività:
Il y aurait certes une solution idéale: que l'écrivain fût lui-même photographe et créât texte et image, si j'ose dire, du même mouvement. Mais l'oiseau doit être bien rare car on le cherche encore.
Ecco allora l’intervento del fotografo, dell’intermediario, discreto e accogliente, capace di mettere lo scrittore nelle condizioni di ritrarre se stesso. Ma un nuovo e inaspettato ostacolo attendeva Tournier e Boubat in questa loro avventurosa spedizione nel Paese delle Lettere:
Mais l'impression qui ne cessait de hanter Édouard Boubat, c'était de photographier des visages mal-aimés. Mais ils ne s'aiment pas! Ils ne se supportent pas! S'écriait-il en déposant ses clichés sur ma table. Et il est certain qu'il n'y a pas que de la pose dans l'anti-narcissisme, la rumination morose devant ce masque immérité qui assombrit plus d'une page de ce livre.
La quartina di Paul Valery che diede, quattordici anni dopo la pubblicazione di Miroirs, il titolo alla mostra torinese curata da Daniela Palazzoli aveva indicato tutt’altra direzione6:
Que si j'étais placé devant cette effigie/Inconnu de moi-même, ignorant de mes traits/A tant de plis affreux d'angoisse et d'énergie/ Je lirais mes tourments et me reconnaîtrais" (nella traduzione di Ruggero Guarini: “Se mi trovassi davanti a questa effigie/Ignoto a me stesso, ignaro dei miei lineamenti/In tante orrende pieghe d'angoscia e d'energia/Leggerei i miei tormenti e mi riconoscerei”).
Il dongiovannismo e il bovarismo del commediante e dello scrittore non sembrano a casa propria in questo brano. Lo sguardo rivolto all’interno, così frequentemente sbandierato dagli scrittori francesi di Miroirs, non produce un’esteriorità mobile e volubile, incide invece, come una forza che dall’interno preme, originando pieghe d’angoscia e d’energia sulla pelle, crea la forma di un volto che copre le diverse maschere con azione precisa e volontaria.
Miroirs è un libro discontinuo. Alcuni di questi ritratti sono dotati di una intensità rara, altri sono banali o francamente brutti. Si ha la sensazione che questi ultimi vengano esibiti quanto i primi, che si sia deciso di esaltarne il valore testimoniale, l’attestazione di una pochezza nel soggetto, di una tendenza a pensare assai poco, per dirla con Diderot, o di un mancato incontro tra fotografo e ritrattato.
Tra gli scrittori francesi che si sono prestati al gioco di Tournier sono pochi quelli che conosco. Credo si debba essere profondi frequentatori della cultura letteraria francese per conoscere alcuni di questi volti e di questi nomi e forse è per questa ragione che Miroirs è, oggi, un libro quasi dimenticato nel nostro paese. Non può essere quindi la mia familiarità con alcuni di questi volti a renderne il ritratto più apprezzabile di altri. È invece la qualità dello sguardo, il dialogo sotteso che si instaura tra i tre sguardi che ogni ritratto comporta. Ed è anche il modo in cui un secondo elemento riesce a entrare nella composizione, a fianco del volto, come sua controparte. Non sarebbe possibile definire queste immagini come “ritratti ambientati”, per usare una formula coniata per i ritratti di Arnold Newman. Questo secondo elemento, che affianca il volto dello scrittore nei ritratti di Boubat, non è un elemento accessorio, esplicativo, è come un compagno ma è diverso da una “spalla” perché nella composizione non svolge un ruolo subalterno rispetto al volto. È qualcosa che ha lo stesso ruolo delle basi nelle sculture di Brancusi: non supporti, ma elementi dotati della stessa importanza dell’opera e da essa inscindibili. Spesso, nei ritratti meglio riusciti, questo secondo elemento è rappresentato dalle mani dello scrittore o della scrittrice: strumenti di lavoro, forme e mezzi di una espressività intrinseca, inscindibile dal corpo e dal pensiero. Non so cosa abbia a che fare con Françoise Sagan quel tappeto maculato che fa da sfondo alla sua figura semisdraiata, non conosco affatto Sagan, ma certo quel tappeto sembra completare il suo sguardo. Nel caso di Max-Pol Fouchet (uno dei ritratti meglio riusciti tra quelli compresi nel libro) è il dorso della mano aperta a completare l’espressione del volto nello stesso modo in cui il gesto assertivo delle due dita alzate che reggono una sigaretta, completa ciò che gli occhi di André Fraigneau non avrebbero potuto dire in modo esaustivo.
Tra i ritratti meglio riusciti vi è senza dubbio anche quello di Georges Simenon: per lo sguardo e l’espressione perplessa, per il gesto delle mani intrecciate. Simenon si è distinto dagli altri scrittori anche nel testo con il quale ha deciso di accompagnare la propria fotografia. Sembrano una forma di sussiego quelle poche parole scritte a mano che riempiono il bordo inferiore della pagina bianca a sinistra del ritratto. Lo scrittore non ha nulla da dire sulla fotografia, essa è eccellente (e lo è davvero) ma purtroppo, afferma Simenon, egli non si ama molto, né in foto, né al naturale; pertanto, il silenzio, un paio di righe vergate a mano e niente più. Quanto dongiovannismo c'è in Georges Simenon? Si potrebbe studiare a fondo e da questo punto di vista un po' pirandelliano la figura di Émile Maugin delle Persiane verdi per capirlo. Senza affettazione, in modo pulito e diretto, Simenon ammette di non amare le proprie fattezze. Cosa intende Simenon dicendo al naturale? Forse la propria immagine riflessa in uno specchio? O forse Simenon non ama se stesso in un senso più grande ed è per questo che i suoi personaggi, le sue maschere artificiali, Maigret su tutti, non lo lasciano mai.
È il 1973 quando l’editore Denoël dà alle stampe Miroirs. Siamo ancora lontani dalla Camera chiara di Barthes e dalle riflessioni di Sciascia sull’entelechia. Al Paradoxe di Diderot, Tournier sembra solo avvicinarsi per poi ammettere di aver sottovalutato la natura generale del problema, quella mancanza di amore per se stessi che Sciascia ritroverà sotto forma di battuta nel Piccolo dizionario borghese di Brancati e Longanesi e che a Tournier sembra addirittura capace di mettere in crisi i fondamenti stessi della morale cristiana. Questo pensiero, che Tournier mette subito per iscritto per non permettergli di procedere oltre, porta lo scrittore francese a complimentarsi con Alexandre Kalda che nel proprio testo esprime senza remore tutto l’amore che sente verso di sé e che, non a caso, nella direzione più individualistica della cultura indiana, da lì a breve, orienterà le sue esigenze spirituali7. È dunque solo al fotografo che, al termine dell’introduzione, Tournier attribuisce il merito e la vera riuscita dell’impresa editoriale; sono quasi un inchino a ciò che definisce il “mistero Boubat”, i suoi ultimi paragrafi, quel mistero di una personalità e di una qualità umana che sembra capace, come per magia, di generare armonia nelle cose e nelle persone.
Boubat, Édouard. Miroirs : autoportraits. Denoël, 1973.
Sciascia, Leonardo. “Il ritratto fotografico come entelechia”, ora in Sciascia, Leonardo e Diego Mormorio (a cura di). Sulla fotografia. Mimesis, 2021.
Sciascia, Leonardo e Palazzoli Daniela. Ignoto a me stesso: ritratti di scrittori da Edgar Allan Poe a Jorge Luis Borges. Bompiani, 1987.
Sciascia, Leonardo. Cruciverba. Einaudi, 1983, pp. 182-201.
Scianna, Ferdinando. Obiettivo ambiguo. Contrasto. 2015, pp. 30-41.
Sciascia, Leonardo. “Il ritratto fotografico come entelechia”, ora in Sciascia, Leonardo e Diego Mormorio (a cura di). Sulla fotografia. Mimesis, 2021, pp. 85-86.
Nel 1975 Kalda si trasferisce a Pondicherry, nell’ashram di Sri Aurobindo, dove morirà una ventina di anni dopo.