#20. Dimenticare la fotografia di Andrew Dewdney
Come ricordare, riconciliare e infine perdonare la fotografia.
Credo che Dimenticare la fotografia di Andrew Dewdney sia un lavoro molto convincente. Credo che lo sia mettendomi nei panni altrui perché con me, lo studioso britannico ha sfondato una porta già aperta. Faccio parte della generazione che ha zombificato la fotografia. Quando ancora studiavo, negli anni a cavallo tra questo secolo e il secolo scorso, i progetti di digitalizzazione dei fondi fotografici nascevano come funghi ovunque in Europa. Progetti enormi, faraonici, nascevano con il marchio della mercificazione e del consumo patrimoniale. Tutti, fingendo di non vedere, si dicevano l’un l’altro quanto la digitalizzazione fosse cosa buona e giusta. Per fortuna, faccio anche parte del gruppo di coloro che da tempo, benché confusamente, di questa zombificazione percepiscono la natura malsana. Era il 2020 e avevo appena aperto il mio blog. Scrivendo di UN INCONTRO MANCATO dichiaravo il mio veganesimo per spiegare una scelta radicale, il rifiuto dell’analogico e l’adesione totale alla “fotografia digitale”. Lo so, a voi sembrerà tutto un saltar di palo in frasca. Se ancora non avete letto il saggio di Andrew Dewdney cogliere i nessi potrebbe non essere così facile, soprattutto se siete tra coloro che “la coscetta di pollo non è il problema”.
Ciò che apprezzo particolarmente in questo progetto culturologico di Dewdney è la dimensione politica, la motivazione che sta alla base della sua critica radicale nei confronti delle istituzioni, della cultura accademica, delle pratiche curatoriali e museali. Ciò che collega il mio veganesimo ad un libro che apre in modo propositivo allo studio e alla comprensione della network image - questa è la locuzione provvisoria che Dewdney utilizza per sbarazzarsi di un lessico ingombrante - è una falda sotterranea capace di scuotere l’intera sovrastruttura della cultura mondiale contemporanea. Dewdney scrive da qualche posto nel futuro e se avete letto i libri di ARIELLA AZOULAY sapete che si tratta di un futuro che dobbiamo sforzarci di immaginare.
Si salvi chi può, Dewdney è uno tsunami, l’onda anomala che spazzerà via il villaggio del capitalismo globale. Bello che tutto questo possa avvenire a partire da un libro che si occupa di cultura visiva benché non rappresentativa.
Esagerata, si dirà. Invece no, perché come afferma Dewdney:
la comprensione del ruolo storico della fotografia e, soprattutto, l’arruolamento della nuova immagine nei sistemi globali di potere in evoluzione richiedono un punto di partenza più impegnato e schierato (p. 183).
Il punto di partenza, la motivazione che ha spinto Dewdney a scrivere il suo libro, è importante e non eludibile. Dewdney, insieme ad altri studiosi che cita, Jonathan Beller in primo luogo, ricolloca la fotografia analogica nell’organizzazione dei mezzi di produzione industriale attuata dai sistemi culturali e di potere del XIX e XX secolo rifiutandosi di considerarla ancora come spettatrice innocente di una realtà esterna e oggettivata. La vera domanda, oggi, è quanto si sia noi, i veri spettatori, innocenti o collusi.
Non lo sentivate, voi, l’odore della decomposizione? Parlo di quel leggero senso di insoddisfazione, la sensazione di stare lì a menare il can per l’aia nell’interesse - legittimo, per carità - di chi col morto ci campa mentre giovani sempre più confusi e privati di un vero futuro rivendicavano il loro diritto al passato altrui, alla lentezza dell’analogico, tutti piccoli chimici e uno su mille ce la fa. Mi stupiva davvero il numero incredibile di fotografi che tornavano al COLLODIO, al dagherrotipo - sempre meglio della gelatina, comunque -, operazioni peraltro interessanti anche da un punto di vista a me caro come quello di ROSALIND KRAUSS.
A partire dagli anni Novanta, i musei d’arte contemporanea hanno installato opere di artisti che mostrano un fascino per gli archivi e i mezzi analogici […]. Ma, come ha osservato Claire Bishop, a parte alcuni puristi che lavorano con l’artigianato analogico della fotografia e del cinema, gran parte di questo lavoro basato sui media analogici si affida a forme digitali di ricerca e produzione attraverso la ricerca d’archivio su internet, il trattamento con software digitale di post-produzione di materiale analogico, nonché l’uso di Wi-fi e di proiezioni digitali per le installazioni (p. 109).
Nelle opere di tal fatta la disgiunzione tra fotografia e calcolo resta invisibile. La fotografia è entrata nel mercato dell’arte, nelle gallerie e nei musei e in America molto prima che in Europa, quando ha smesso di essere socialmente rilevante. Nel triumvirato delle discipline che hanno zombificato la fotografia, l’arte e la storia dell’arte potrebbero raggiungere il podio. Dewdney non rivela nulla di nuovo, sappiamo da tempo che nessun cambiamento culturale possiamo attenderci da questa area disciplinare e dalle sue istituzioni collezionistiche che proprio attraverso la proprietà e il collezionismo recuperano e contengono qualsiasi potenziale cambiamento culturale.
Ve la ricordate la montagna di produzione critica, curatoriale e accademica sulle pratiche estetiche mutuate dalla FOTOGRAFIA D’ARCHIVIO1, le riflessioni sulla fotografia come memoria? Purtroppo, “la teoria critica fotografica condivide lo stesso destino della fotografia, è essa stessa un non-morto vivente” (p. 43); meglio sarebbe, come suggerisce Dewdney, collocare e lasciare la fotografia all’interno dell’archivio storico, al fine di articolare le nuove condizioni dell’immagine (p. 28).
La network image di cui scrive Dewdney se non è fotografia analogica, come è ovvio, non è neppure fotografia digitale essendo quest’ultima niente altro che un ossimoro mascherato dall’apparente somiglianza tra i due termini (p. 178). Non li ho mai sopportati, ma grazie a Dewdney e alla nuova visione che ci offre sarei persino disposta a incontrare a metà strada i nuovi pittorialisti della fotografia digitale, a riappacificarmi con loro per lasciarmi alle spalle un’altra vecchia e inutile questione. Sulla “fotografia digitale” non si ingannavano, almeno in parte, ma la nuova realtà che Dewdney definisce network image è una realtà terza e diversa e per capire la realtà in cui viviamo, dimenticare la fotografia, digitale o analogica, è essenziale.
L’immagine generata digitalmente, elaborata computazionalmente e collegata in rete non è né una fotografia né un’immagine digitale, ma, paradossalmente, è ancora recepita come l’una o l’altra (p. 156).
Quando si parla di automazione facendo spallucce e giustificandola con assunti pregiudizievoli del tipo “la fotografia è sempre stata”, si commette un errore concettuale e politico gravissimo. Nel suo libro Dewdney cita il lavoro di Nicolas Malevé che studiando il caso di ImageNet ha ricordato come per costruirlo sia stato necessario un immane lavoro di etichettatura e classificazione affidato ad un esercito di lavoratori precari pagati pochi centesimi.
Per rendere visibile l’assemblaggio socio-tecnico dell’immagine, la ricerca e lo studio devono ridisegnare il confine dell’oggetto, portando a un approccio transdisciplinare e transmediale. Questo compito deve essere svolto attraverso la teoria, la pratica e la politica in collaborazione con i collettivi progressisti che stanno già cercando di riconoscere gli ibridi nel lavoro per garantire un futuro democratico e sostenibile (p. 228).
C’è chi già lavora in questa direzione e Dewdney lo ricorda come ricorda i tentativi fatti in passato dalla fotografia alternativa - altra definizione provvisoria e discutibile - per dare visibilità a tutto ciò che nel sistema capitalistico industriale e post-industriale doveva restare nascosto.
Poche certezze: 1) la network image non sarà mai per me oggetto di studio, mi fa difetto quella cultura transdisciplinare di cui Dewdney auspica l’avvento e che non credo di potermi procurare alla mia età; 2) la mia storia d’amore con la fotografia è ormai giunta al termine. Come coloro che si rifiutano di portare avanti una relazione di cui avvertono l’insensatezza inizio ad aprirmi a nuove istanze. Il saggio di Dewdney invita a salpare verso nuovi lidi e non è forse un caso che io abbia appena usato una metafora di coppia. In questo inizio d’estate ho letto il Manifesto delle specie compagne di Donna Haraway. Dewdney e Haraway fanno parte dello stesso mondo. Dewdney cita la filosofa americana a proposito del suo Manifesto cyborg in relazione agli studi di Joanna Zylinska sulla fotografia non umana ricordando come da parte di entrambe le studiose la dimensione non umana della tecnologia computazionale sia stata affrontata e concepita come un percorso di riparazione e di cura. A parte Zylinska, un altro punto di contatto tra Dewdney e Haraway è Bruno Latour. Altri lidi, decisamente, ma si vedrà. Per ora, buone vacanze.
Aggiungo una nota per coloro che dopo aver letto questo post leggeranno il saluto a Boltanski che ho scritto qualche tempo dopo la sua morte e che ho linkato alla dicitura “fotografia d’archivio”. Fate attenzione al paragrafo finale: quella risposta che Boltanski diede a Chiara Bertola tredici anni fa dimostra che gli artisti, quelli grandi come Boltanski, hanno davvero una lucidità e una chiarezza di visione superiore a quelle di noi esseri comuni e ordinari. Il problema, come fa notare Dewdney, è che gli artisti per poter esercitare la loro influenza non possono fare altro che affidarsi al mercato: il serpente si morde la coda. Quanto al sacchetto di plastica e al paracetamolo, sappiamo che a Boltanski faceva difetto invece una superiore sensibilità ai problemi più direttamente legati alla sostenibilità dei materiali e delle sostanze che utilizziamo, nonché alla loro dispersione nell’ambiente.